I tagli alla produzione sono stati prorogati per altri 9 mesi: con questa manovra, l’OPEC mira a risollevare il prezzo del petrolio, che intanto crolla ulteriormente del 5%
Sostenere il prezzo del barile favorendone la risalita. È questo il motivo che si cela dietro la decisione dei recenti nuovi tagli alla produzione dell’oro nero da parte dei Paesi produttori di petrolio, ma la strategia sembra non funzionare. La domanda è lecita: come mai il mercato del petrolio continua a perdere terreno?
La strategia dell’OPEC. I tagli alla produzione permettono di ridurre la quantità di riserve nel mondo, facendo diminuire di conseguenza anche l’esubero di offerta. Stando agli analisti di Bloomberg, le difficoltà dell’OPEC nell’abbattere il ritmo di produzione del petrolio sono note da tempo e un possibile arresto della produzione comporterebbe, comunque, un periodo di almeno 7 mesi necessario allo smaltimento della quantità rimasta. Già in passato l’organizzazione dei Paesi petroliferi si era mossa in questa direzione, ma il prezzo al barile non ha fermato la sua discesa, arrivando negli scorsi mesi anche a quota 46 dollari. In alcuni Paesi circa il 90% delle esportazioni dipende proprio dal petrolio, per cui è importante il suo prezzo si mantenga entro determinati limiti. I Paesi che fondano la propria ricchezza direttamente sul petrolio lo usano anche per finanziare i propri bilanci pubblici, ma ora – complice il calo dei prezzi – il mercato petrolifero non riesce più a fare da cuscinetto per il bilancio interno.
Il nuovo accordo. L’ultimo accordo sui tagli alla produzione è stato firmato lo scorso 25 maggio tra l’OPEC e altri 12 Paesi non appartenenti al cartello, tra cui la Russia. L’accordo non prevede ulteriori tagli alla produzione in termini di quantità, ma una proroga della durata del tetto all’offerta di altri 9 mesi, sino a marzo 2018. Se nei giorni precedenti la riunione i prezzi erano leggermente risaliti a quota 50 dollari al barile, ad accordo stabilito, invece, sono ritornati in linea con la tendenza negativa passata. Perchè rimangono queste difficoltà? Da ormai 2 anni la quota 60 dollari sembra insuperabile, ma per una potenza come il cartello dell’OPEC il non poter superare certi limiti a lungo andare è penalizzante. Eppure la risposta appare piuttosto chiara: qualcuno sta dando del filo da torcere.
Che cosa frena l’avanzata del petrolio? Tra i Paesi petroliferi aderenti al cartello ce n’è qualcuno che non ha aderito alla proroga dei tagli: si tratta di Libia e Nigeria. La disomogeneità di intenti all’interno dell’OPEC contribuisce certamente ad aumentare le difficoltà, ma i fattori sono anche altri. Il crescente interesse per le energie rinnovabili per esempio di certo gioca un ruolo non indifferente: la Svizzera promette di abbandonare il nucleare entro il 2050, mentre l’India mira al divieto di circolazione delle auto alimentate a carburanti fossili, in favore invece dell’ingresso nel mercato di auto ad alimentazione elettrica. E il secondo consumatore di petrolio al mondo, la Cina, ha un piano per utilizzare fonti fotovoltaiche entro il 2020. Il trend eco, insomma, è un duro rivale per il petrolio. Un ulteriore freno all’obiettivo dell’OPEC è dato dal mercato petrolifero americano, la cui produzione è invece in aumento. Di norma un taglio alla produzione dovrebbe avere come conseguenza un calo dell’offerta e quindi un aumento del prezzo. Invece, l’aumento del prezzo induce gli americani a rimpolpare la quantità di petrolio sul mercato, dal momento che un prezzo elevato rende conveniente una maggiore produzione. Ecco che si crea un circolo vizioso: l’offerta sul mercato aumenta nuovamente e il prezzo va al ribasso. Basti pensare che la settimana scorsa la produzione USA è salita circa a 10 milioni di barili al giorno, vanificando gli sforzi dell’OPEC. L’attuale situazione dimostra che non sempre chi detiene il monopolio risulta infallibile, ma i rischi adesso coinvolgono gli investitori a lungo termine che devono vedersela con un mercato in bilico.
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