Un’associazione, quella tra coronavirus e birra Corona, partita come una goliardata sui social e diventata poi un serio problema: ecco quale lezione puoi ricavarne
È iniziato tutto come una battutona da social. Ma poi è diventato in un problema vero e serio. Ebbene sì: associare per gioco coronavirus e birra Corona ha avuto ricadute concrete sul brand, con tanto di perdite in Borsa.
Coronavirus vs Corona beer. Non appena il nuovo coronavirus (nome scientifico: Sars-Cov-2) diventa un argomento di massa, in rete iniziano a fare la loro comparsa decine e decine di meme che lo associano, appunto, alla birra Corona. Vuol essere una goliardata, ma qualcuno ci intravede qualcosa di serio, come provano le ricerche su Google relative a “Coronavirus birra Corona” o “Virus Birra Corona”, che si moltiplicano. E negli Stati Uniti, Paese nel quale la birra Corona è la terza più consumata dopo Guinness e Heineken, le vendite precipitano. A un certo punto, l’azienda produttrice si vede costretta a emanare una nota di chiarimento sull’assenza di qualsiasi legame tra la sua birra e il Sars-Cov-2.
Resta il problema di fondo: quello, cioè, dell’influenza che un nome può avere sulle decisioni di ognuno di noi, sia che riguardino i consumi sia che abbiano a che fare con gli investimenti o il lavoro. Su questo esistono diversi precedenti: noi limiteremo il nostro viaggio a ritroso a una ventina di anni fa, ricordando brevemente il caso delle dot.com.
Ti ricordi la bolla delle “dot.com”? Dalla metà degli anni Novanta fino al 2000 circa, i mercati azionari globali, e in particolare il Nasdaq, sono cresciuti in modo spettacolare grazie alla popolarità dei titoli associati all’esplosione di Internet nella nostra vita quotidiana. Molte aziende sono state assolute pioniere nello sviluppare modi per sfruttare questa nuova tecnologia in modo redditizio. Altre, invece, si sono semplicemente limitate a trarre beneficio dalla popolarità e dalla conseguente mania mainstream per le azioni della triade “tecnologia, media e telecomunicazioni”. Mania che ha alimentato l’attrazione “fatale” per qualunque nome quotato – eccola qui, la questione del nome – con prefisso “e-” o suffisso “.com”.
Nomi di questo tipo – pensava la gente – stavano a indicare che le aziende che li portavano lavoravano in settori super innovativi e profittevolissimi. Ma non sempre era così.
In molti hanno notato che il semplice ritocco al nome di una società già esistente che andasse a includere tali suggestivi richiami ha portato a un significativo aumento del prezzo delle azioni. Un’arma, però, rivelatasi poi a doppio taglio.
Da plus a minus. Nel 2001, gli accademici della Purdue University negli Stati Uniti hanno confermato l’esistenza dell’“effetto dot.com”: un’azienda che modificasse il suo nome per includere il suffisso “.com” poteva aspettarsi rendimenti anomali del +74% nei 10 giorni prima e/o dopo l’annuncio. Una cavalcata che in molti casi proseguiva.
Ma, come si dice, tutti i nodi prima o poi vengono al pettine. Dopo il crash delle dot.com, una società il cui nome era associato a Internet non se la passava benissimo in quanto a prezzo delle azioni. Molti degli stessi ricercatori che hanno scritto il documento del 2001 hanno riscontrato l’effetto opposto in un documento del 2003, scoprendo che, durante il crash, la rimozione di “.com” dal nome di un’impresa ha portato a rendimenti anormali cumulativi di circa il +64%.
La peculiarità di questo effetto ha rappresentato una delle numerose anomalie della bolla tecnologica, anomalie che hanno spinto molti a mettere in discussione la razionalità degli investitori e l’efficienza dei mercati finanziari.
L’effetto-nome nelle selezioni di personale. Sai che il nome gioca un ruolo non secondario anche quando si tratta di assumere personale? E’ stato infatti dimostrato che può determinare chi, fra i vari candidati, otterrà il lavoro. Sempre nel 2003, Marianne Bertrand e Sendhil Mullainathan hanno condotto un esperimento sul campo negli Stati Uniti. Facendo cosa? In soldoni, hanno creato una serie di curricula e fatto domanda per un tot di posti di lavoro pubblicizzati sui giornali. Il loro “trucco” è stato cambiare i nomi sui CV in modo che rispecchiassero gruppi etnici diversi. Cosa è venuto fuori da tutto ciò? Che i candidati con nomi bianchi dovevano inviare circa 10 curricula per ottenere un contatto, mentre per raggiungere lo stesso risultato quelli con nomi afroamericani dovevano spedirne circa 15.
Questa e altre ricerche sui pregiudizi inconsci costituiscono una delle principali ragioni per cui molti processi di colloquio e selezione oggi prevedono che i dati identificativi dei candidati siano tenuti nascosti.
Come puoi aggirare l’ostacolo. In conclusione, perché mai un nome dovrebbe influenzare le tue decisioni? Possiamo rispondere che a ciò contribuisce sia il pregiudizio cosciente sia quello inconscio. Come puoi uscire dall’impasse? Esercitandoti a mettere in atto una serie di passaggi che rallentino il processo decisionale, in modo che l’esito sia migliore.
Qualche esempio? La tua pianificazione degli investimenti, l’assunzione di una persona e…ovviamente, la scelta della birra da comprare.
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