Cosa fare se la moda è troppo “fast”?

È tempo di convogliare i capitali su un’industria della moda più moderna e sostenibile. Il commento di Rupert Welchman di UBP

Sprecare non va più di moda. Ma la moda lo sa? Da quando i consumatori hanno iniziato a porre più attenzione ai temi della sostenibilità, proprio l’industria della moda è stata tra quelle finite sul banco degli imputati.

Perché? Perché la tradizionale filiera di questa industria presenta più di un problema: uso smodato delle risorse naturali, inquinamento ed emissioni di gas serra, massiccio utilizzo di energia; ma anche lavoro sottopagato e persino minorile, occupazione precaria e condizioni di lavoro malsane o non sicure. Insomma, è tempo di cambiare.

Fast fashion, un business “affamato di risorse”

A fare il punto è un commento intitolato “È ora di investire in una moda meno ‘fast’ e più giusta”, a cura di Rupert Welchman, Portfolio Manager Impact Equities della banca svizzera Union Bancaire Privée (UBP). Cosa dice questo commento? Innanzitutto che, nel costante tentativo di tenere alti i consumi e bassi i prezzi, finora quello della fast fashion è stato “un business affamato di risorse”. Ora, però, “è tempo che il settore dell’abbigliamento ripensi non solo i suoi processi, ma l’intera filosofia e la sua ragion d’essere”.

E lungo tutta la filiera sono molti i punti di potenziale intervento. E altrettanti sono, per così dire, i margini di miglioramento. Innanzitutto, c’è il tema dell’impatto dei materiali utilizzati per la produzione di tessuti. Il cotone, per esempio: è un materiale naturale, biodegradabile e riciclabile: peccato che la sua produzione richieda – come sottolinea il commento a cura di Welchman – “un’enorme quantità di acqua e terra”.

Hai presente il poliestere, invece? Che ti piaccia o no, è la fibra sintetica più comunemente utilizzata per fare vestiti. Ha di buono che consuma meno acqua e genera meno rifiuti delle fibre naturali, ma – ricorda il commento – “non è biodegradabile”. E quando viene lavato, “rilascia microplastiche che finiscono nei fiumi e negli oceani e danneggiano la vita marina, danneggiando in ultima istanza l’intero ecosistema di cui anche noi facciamo parte”.

Dai fondi del caffè alle alghe: i tessuti alternativi

Va detto però che gli imprenditori si stanno dando da fare per risolvere il problema.

Nel mercato delle eco-fibre – un mercato da circa 35 miliardi di euro – “sempre più imprenditori stanno lavorando per produrre fibre alternative come la canapa e la pasta di legno”. E tra le opzioni ci sono – pensa – anche i fondi di caffè e le alghe.

Ti stupisce? È già realtà: l’azienda taiwanese Singtex, con la collaborazione di un team di ricerca, ha realizzato il tessuto S.cafè recuperando proprio i fondi di caffè: e oggi questo tessuto è utilizzato da brand del calibro di Hugo Boss.

Ma vengono profusi non pochi sforzi anche nel riciclo delle fibre sintetiche, come il PET, per la produzione di articoli come borse e scarpe. E c’è anche tutta un’industria emergente legata alla produzione di coloranti naturali da microrganismi, onde sostituire i prodotti chimici tossici tradizionalmente utilizzati per trattare e colorare le fibre.

Lo spreco inizia (e può essere eliminato) dal design

Ma affinché l’industria della moda diventi circolare, bisogna mettere in conto la selezione in favore di questi materiali già al momento della progettazione degli indumenti e dei vari accessori, tenendo a mente, fin dal concepimento dell’idea, l’intero ciclo di vita del prodotto, incluso il suo eventuale smaltimento.

Ottimizzando design e taglio, si legge nel commento a cura di Rupert Welchman, si può fra l’altro ridurre di molto lo spreco di tessuto all’inizio della produzione. Uno spreco che può raggiungere il 15%.

Anche i consumatori devono fare la loro parte

Per quanto sia importante, ripensare i metodi di produzione non basta: serve anche un cambio di mentalità tra i consumatori.

“Negli ultimi 15 anni, il tasso di utilizzo dei vestiti è calato del 36%, scendendo a soli 10 utilizzi per capo. Secondo Euromonitor International, ogni persona in media acquista 15 capi e due paia di calzature ogni anno. Se siamo disposti a spendere di più per ogni articolo, pagando per la qualità piuttosto che per la quantità e conservando e indossando i nostri vestiti più a lungo, noi consumatori possiamo avere un impatto enorme”.

Merita inoltre una segnalazione il maggiore interesse, specialmente tra i giovani, per il mercato dei beni di seconda mano e del noleggio. Che magari può essere un altro tassello nel quadro della maggiore sostenibilità della “fast fashion”.

Non lo metto più: lo butto o lo riciclo?

Per quanto riguarda la fine del ciclo di vita di un indumento e il suo smaltimento, poi, all’industria occorrono un maggior coordinamento e strutture per la selezione e il riciclaggio su larga scala. Solo l’1% circa dei materiali viene riciclato, puntualizza il commento a cura di Welchman, mentre ben 20,5 miliardi di capi finiscono in discarica ogni anno. Sono in fase di sviluppo modalità di riciclaggio meccanico e chimico, ma servono ancor più investimenti affinché riescano a imporsi.

Secondo alcune stime, i miglioramenti nelle fasi di produzione, consumo e fine vita della catena del valore dell’abbigliamento potrebbero portare – sottolinea il commento dell’esperto di UBP – a un risparmio di circa 163 miliardi di euro all’anno. Con un salto di qualità anche nell’utilizzo di energia e acqua e nelle pratiche lavorative.

Cosa possono fare gli investitori?

Gli investitori possono rivestire un ruolo chiave in questa trasformazione. Per dirla con UBP, “gli investimenti sono il link in grado di convertire iniziative sporadiche in un cambiamento strutturale”.

“Incanalando i capitali verso le aziende innovative a impatto che cercano soluzioni nuove e impegnandosi direttamente con loro per promuovere la collaborazione attraverso l’intera supply chain, gli investitori possono sommare tutti questi sforzi e rendere possibile un cambiamento nell’industria della moda”.

Nel suo commento, Welchman li chiama “investitori a impatto”: sono coloro che investono con l’intenzione di generare un impatto sociale. Secondo UBP, sono loro – insieme ai consumatori consapevoli, alle stesse aziende di abbigliamento, ai legislatori e ai regolatori, alle organizzazioni non-profit e non solo – ad avere la possibilità di far sì che il settore “realizzi il proprio potenziale e diventi l’industria rispettosa della natura e della società che il mondo richiede”.

 

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