Dopo svariati anni di delocalizzazione del processo produttivo, le imprese iniziano a fare dietro-front. Capofila nei rimpatri manifatturieri USA e Italia: ecco che impatto potrebbe avere il fenomeno del “reshoring” sulle varie economie
La globalizzazione fa marcia indietro. Il termine tecnico è “reshoring” e indica la tendenza, rilevata sia in Italia sia nelle altre economie sviluppate, a riportare in patria i processi produttivi che in passato erano stati delocalizzati nelle economie in via di sviluppo. Stando al gruppo di ricerca Uni-Club More Reshoring, che riunisce studiosi delle università di Catania, L’Aquila, Udine, Bologna e Modena-Reggio Emilia, l’Italia si posiziona al secondo posto per numero di rilocalizzazioni produttive, subito dietro gli Stati Uniti, con oltre 120 casi dai primi anni 2000 ad oggi. Ma quali sono le ragioni dietro questo ripensamento e quali i possibili impatti sulle economie “rimpatrianti”?
Il costo del lavoro dei Paesi emergenti non è più conveniente. Negli ultimi decenni, fino a prima della crisi finanziaria, abbiamo assistito a una forte tendenza a delocalizzare i processi produttivi verso l’Europa dell’est, la Cina e l’Asia in generale, tutti paesi dove si potevano trovare manodopera a basso costo, tasse più basse e materie prime in abbondanza. Ora però molte cose stanno cambiando. Tanto per cominciare, il costo del lavoro nei Paesi emergenti sta lievitando a vista d’occhio, facendo venire meno la convenienza economica. In Cina si parla di un aumento fino al 15% l’anno: presto il risparmio sulla manodopera non compenserà più gli alti costi logistici e doganali.
Il controllo dei costi delle aziende. La crisi ha imposto alle aziende un severo controllo dei costi, e gli Stati hanno varato strategie per contrastare i tassi di disoccupazione a doppia cifra, anche se va detto che l’effetto del reshoring sull’occupazione non è univoco: in paesi come l’Italia, la rilocalizzazione è spesso “difensiva”. In altre parole, si rimpatria per utilizzare una capacità produttiva già esistente, non per assumere nuovo personale nel Paese di origine. La domanda non è quindi “quanti posti si creano”, ma piuttosto “quanti posti non si sono persi”.
I consumatori sono sensibili alle tematiche sociali. Infine, è cambiato profondamente l’atteggiamento dei consumatori, sempre più attenti alla qualità e all’affidabilità del marchio e sempre più sensibili alle tematiche sociali e ambientali e alla reputazione delle aziende. Secondo uno studio condotto da Pwc, i Millennials (cioè i nati tra la metà degli anni ’80 e i primi anni Duemila, che rappresentano uno dei nuovi target di riferimento per i marchi della moda e del lusso), giudicano favorevolmente il processo di rilocalizzazione delle aziende e accetterebbero di pagare un prezzo più alto per un prodotto “reshored” (50% del campione).
L’effetto positivo della rilocalizzazione. Quanto all’impatto della rilocalizzazione sulle economie protagoniste del rimpatrio, il bilancio è sicuramente positivo. Al di là dei possibili effetti benefici in termini di occupazione, infatti, questa tendenza permette di recuperare competenze, accrescere il PIL e migliorare la bilancia commerciale. E le aziende italiane (e non solo) sembrano essersene rese conto: i casi di “back to Italy” più noti avvenuti negli scorsi anni, hanno riguardato marchi rinomati della moda come Louis Vuitton, Prada, Ferragamo, Ermenegildo Zegna, Brunello Cucinelli, Bottega Veneta, Geox e aziende produttrici di borse e valigie come Piquadro e Nannini. Ma il fenomeno si è verificato anche nei grandi gruppi del settore dell’occhialeria (Safilo, Marchon) e nei settori del mobile (Natuzzi), della meccanica (gruppo Argo Tractors, gruppo Ima) e dei ciclomotori (Wayel). Altri marchi famosi che hanno avviato il processo di rimpatrio di una parte della produzione sono Furla, L’Oreal, Whirlpool, Beghelli, Lamborghini, Artsana, solo per citarne alcuni.
Per poter visualizzare i commenti devi accettare i cookie facoltativi, clicca qui per cambiare le tue impostazioni sui cookie.