Petrolio, OPEC e OPEC+: il nuovo scacchiere mondiale

La decisione di un nuovo taglio alla produzione si colloca in un quadro di profondo cambiamento, nel quale alcuni storici produttori consolidano la loro posizione e nuovi protagonisti impongono la loro influenza

Prima, brevemente, la notizia: alla riunione del 6 e 7 dicembre, i Paesi OPEC, d’accordo con quelli non OPEC, hanno sancito un taglio della produzione di 1,2 milioni di barili al giorno rispetto a ottobre. La decurtazione, che entrerà in vigore a gennaio per sei mesi, sarà così ripartita: 800 mila a carico dei Paesi dell’Organizzazione e 400 mila di competenza dei produttori alleati che però non ne fanno parte. Una decisione largamente attesa, considerando che rispetto ai picchi dei primi di ottobre – quando il petrolio delle due qualità più pregiate, Brent e WTI, raggiunse i massimi dal novembre 2014 – il prezzo dell’oro nero ha poi perso il 30% circa. Cosa è successo?

Come si è arrivati alla decisione. All’attuale presidente degli Stati Uniti Donald Trump l’accordo sul nucleare iraniano, siglato dal suo predecessore Barack Obama, non è mai piaciuto. Non ha stupito troppo, quindi, l’annuncio di volerlo abbandonare, ripristinando le sanzioni USA a carico di Teheran. Fra queste, il divieto di esportare petrolio. La prospettiva di un’offerta globale orfana del contributo iraniano ha indotto il mercato a ritenere che il prezzo del barile sarebbe aumentato – a parità di domanda, minore offerta vuol dire prezzi più alti – ed ecco quindi che le quotazioni sono salite. Poi, però, sono successe tre cose: otto Paesi, tra cui i giganti Cina e India, sono stati esentati dal divieto di comprare petrolio dall’Iran per un periodo di sei mesi; l’Agenzia Internazionale dell’Energia ha fatto sapere che nel 2019 la domanda sarà più debole, in scia al rallentamento dell’economia globale; la produzione di Stati Uniti, Russia e Arabia Saudita ha più che compensato il vuoto lasciato dalla crisi di Venezuela e Libia e dalle sanzioni all’Iran. Ed ecco che il prezzo ha ripreso a scendere.

Una scelta che ha un precedente. È la seconda volta che per i Paesi OPEC si impone questa necessità – la precedente fu a fine 2016 – e stavolta sono stati esonerati dall’aderire al taglio Iran, Libia e Venezuela. Il prossimo vertice OPEC si terrà l’8 aprile, in anticipo rispetto al consueto appuntamento di maggio-giugno, per ragionare sugli effetti della manovra. Al di là delle questioni di calendario, il 2019 potrebbe imprimere una spinta evolutiva non di poco conto all’Organizzazione. Lo scacchiere mondiale del greggio, infatti, appare nel pieno di una profonda trasformazione. Uno dei suoi storici membri, il Qatar, ha annunciato che uscirà per dedicarsi di più al gas liquido, di cui è il maggiore esportatore al mondo: era quindi presente all’ultimo vertice, ma non ha partecipato alla decisione finale. Mentre OPEC Plus, sigla che include i Paesi OPEC e i non OPEC, potrebbe diventare un presidio permanente, con la Russia a ricoprire, insieme all’Arabia Saudita, un ruolo di assoluto primo piano.

Due parole sull’OPEC. L’Organizzazione dei Paesi produttori – meglio nota come OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries) – nacque in occasione della Conferenza di Baghdad del settembre 1960. Cinque i Paesi fondatori: Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita e Venezuela. A questi, negli anni, si sono aggiunti il Qatar, l’Indonesia, la Libia, gli Emirati Arabi, l’Algeria, la Nigeria, l’Ecuador, l’Angola, il Gabon, la Guinea Equatoriale e il Congo. Fin dalle origini, l’OPEC ha mostrato una vocazione “terzomondista”: la sua stessa creazione è stata la risposta all’egemonia delle compagnie petrolifere estere, soprattutto anglo-americane, che all’epoca controllavano di fatto l’intera filiera, incluse le quote di produzione e i prezzi da corrispondere ai produttori. Oggi lo scenario è un po’ diverso, e anche all’interno del club OPEC sono emerse profonde differenze in quanto a risorse e punti di vista sul mondo e sui consumi. La recente decisione del Qatar ne è la prova.

Un “team” meno compatto. A fronte di un’Arabia Saudita che domina la classifica della produzione di greggio, altri Paesi – come appunto il Venezuela e la Libia – restano molto indietro, anche per via di più o meno gravi disordini interni che certamente non agevolano l’estrazione, la lavorazione e in generale gli investimenti.

Intanto sulla scena si stanno imponendo nuovi protagonisti, tutti rigorosamente non OPEC.

E infatti c’è OPEC Plus. Il nome ufficiale è OPEC/Non-OPEC Joint Ministerial Monitoring Committee (JMMC): è nato a fine 2016, in occasione dell’incontro ministeriale fra i Paesi OPEC e i non OPEC che diede il via al taglio alla produzione entrato poi in vigore il primo gennaio 2017 (per sei mesi, rinnovati poi per altri nove, e successivamente per tutto il 2018). Obiettivo condiviso: stabilizzare i prezzi. Non a caso: le quotazioni del Brent e del WTI erano passate – rispettivamente – dai 90 e 80 dollari USA al barile dell’ottobre 2014 ai 56 e 54 del primo dicembre 2016. Le teste d’ariete dei due fronti – OPEC e non – sono due pesi massimi: Arabia Saudita e Russia, i maggiori produttori mondiali dopo gli Stati Uniti, che non partecipano ad alcun club ma che, grazie alla fracking revolution di Obama, a fine 2017 erano al primissimo posto della classifica. 

Insomma, cambia lo scacchiere ma il petrolio rimane, per il momento, l’indiscusso “oro nero” con cui – e su cui – fare i conti e stabilire gli equilibri di potere.

 

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