Aprono conti correnti, emettono assegni e inviano estratti conto. Il loro bene sono le ore: ecco gli istituti di credito dove aiutarsi è la regola...
Investire il tempo. «C’è solo un modo per dimenticare lo scorrere del tempo: impiegarlo» (Charles Baudelaire).
Le Banche del tempo, veri istituti di credito. Le Banche del tempo, si legge sul sito dell’Associazione nazionale Banche del tempo, sono «libere associazioni tra persone che si auto-organizzano e si scambiano tempo per aiutarsi soprattutto nelle piccole necessità quotidiane». In pratica, funzionano come veri istituti di credito: aprono conti correnti, emettono assegni e spediscono estratti conto. L’unica differenza è che non gestiscono denaro, ma tempo.
Prima in Gran Bretagna, poi in Francia. In Gran Bretagna, le Banche del Tempo sono nate alla fine degli anni Ottanta col nome di Lets (Local exchange trading system). Poi il fenomeno si è sviluppato in Francia, dove sono nati i Sel (Systeme d’exchange local). Infine, nel 1991, le Banche del tempo sono arrivate a Parma su iniziativa della segretaria di un sindacato di pensionati Uil. Nel 1996 gli sportelli erano già una settantina.
Trecento in Italia. Oggi in Italia le Banche del tempo sono circa trecento, anche se è difficile distinguere tra le associazioni attive e quelle in corso di progettazione. Gli sportelli sono sparsi in tutta la penisola, soprattutto in Lazio e in Lombardia, e si contano circa 20 mila correntisti, per il 71% donne. Per sapere dove si trova la Banca del tempo più vicina a casa, c’è il sito dell’Associazione nazionale.
Chi sono i correntisti. La maggior parte dei correntisti sono lavoratori (21,7%), pensionati (21,3%) e casalinghe (19,8%), seguiti da studenti (14,50%) e disoccupati (12,60%). Il 59,36% ha più di 55 anni, il 28,62% ha un’età compresa tra i 36 e 54 anni, il 12,02% ha meno di 35 anni (dati Associazione nazionale).
Che cosa fa un correntista. Trovata la sede più vicina, chi desidera diventare correntista deve sostenere un colloquio con il responsabile della Banca, spiegargli le proprie capacità e comunicargli la disponibilità per un certo numero di ore (basta anche una sola). Una volta iscritti, si apre un proprio conto corrente e si riceve un libretto di assegni, necessario per scambiare: ogni volta che si forniscono delle ore, chi ha ricevuto il servizio stacca un assegno con il numero di ore della prestazione ottenuta e il “datore di lavoro” lo deposita sul proprio conto corrente. Quando sarà lui ad avere bisogno di un servizio, il tempo utilizzato per ciò che gli serve sarà scalato dalle ore versate in precedenza.
Periodicamente arriva l’estratto conto. Periodicamente si riceve un vero e proprio estratto conto, che riassume debiti (ore ricevute, cioè gli assegni spesi) e crediti (ore date, cioè gli assegni depositati). Ore versate e ore richieste dovrebbero essere più o meno le stesse. Chi va in rosso non paga interessi.
I correntisti sono tutti uguali. Lo scambio non è obbligatorio, né immediato ed è sempre alla pari: un’ora vale un’ora. Un’ora del pensionato che va a prendere i bambini a scuola è uguale all’ora del meccanico che aggiusta un’auto.
Uno scambio senza fine. Gli scambi non sono necessariamente reciproci, chi riceve un servizio non deve per forza restituirlo a chi l’ha fornito. Esempio: il socio A, che insegna inglese al socio B, può farsi compilare la dichiarazione dei redditi dal socio C che, a sua volta, potrà far riparare il lavandino della cucina dal socio D che vorrebbe tanto imparare a cucinare dal socio E e così via. L’importante è che nessuno tira fuori un euro.
Nessuno ci perde. «Da un lato occorre tempo prima che certi comportamenti si affermino, dall’altro lato chi svolge una professione non può farlo gratuitamente oltre una certa misura. Lo scambio, dunque, non potrà sostituire completamente nessun mercato, ma affiancarlo in momenti economici e sociali particolari, affermandosi anche tra i ceti che fino ad oggi non erano coinvolti da questa abitudine» (la sociologa Chiara Saraceno).
Gratis. Un italiano su tre ha già scambiato gratis il proprio tempo con qualcun altro, uno su due vorrebbe farlo.
Tutti possono fare qualcosa. Ogni persona può offrire qualcosa. Innanzitutto, partiamo dal presupposto che ciò che si vuole fare può anche non essere inerente al proprio lavoro quotidiano. La commessa inglese può dare lezioni di lingua in cambio di qualcuno che vada a prendere i suoi bambini a scuola. L’ingegnere appassionato di pianoforte può dare lezioni di musica in cambio di qualcuno che gli stiri le camicie. Il pensionato che legge favole ai bambini può farsi poi aiutare col computer dallo studente che vuole imparare a ballare latino-americano. Tante le attività possibili: si possono assistere i bambini durante i compiti, aiutare a stendere un curriculum, insegnare a cucinare, aggiustare l’anta di un armadio, imbiancare, portare a spasso il cane, accorciare un paio di pantaloni, fare la coda in posta o per un certificato, riparare una bicicletta, fare la tinta ai capelli, innaffiare le piante, fare la spesa ecc. Tempo fa qualcuno propose persino una “spalla su cui piangere”.
Come buoni vicini. Dice Grazia Pratella, presidente Coordinamento B.d.T. Milano e provincia: «Le banche del tempo hanno rimesso in moto la sana abitudine all’aiuto reciproco, quei piccoli favori che in passato ci si scambiava fra vicini e che nel Terzo millennio si istituzionalizzano, così anche chi va di fretta o teme di invadere il privato degli altri, si sente incoraggiato e spinto a darsi da fare».
Meglio che disoccupati. «Meglio dare lezioni di inglese gratuite, magari in cambio di ospitalità, che restare disoccupati per mancanza di clienti» (il sociologo Mark Anspach).
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