Artigianale e made in Italy, con una filiera corta a km zero e un approccio zero rifiuti: la birra del futuro è buona e sostenibile. Ecco come sceglierla
Sapevate che per produrre un fusto di birra rossa vengono emessi 56 kg di anidride carbonica? Quantità equivalente a guidare per 220 km con un’auto di medie dimensioni, mentre una pinta di birra equivale a percorrere circa 2 km. In Italia ci sono molti esempi di birrifici virtuosi che cercano di ridurre il loro impatto ambientale: dai grandi impianti con fotovoltaico, a piccole realtà che sperimentano idee rivoluzionarie per l’ambiente che puntano alla qualità, ma anche allo sviluppo sostenibile. In Italia la produzione della birra artigianale è ‘esplosa’ negli ultimi anni, registrando nel triennio 2013-2015 un aumento delle imprese del 143% rispetto al triennio precedente. Protagonisti di quest’impennata sono prevalentemente i giovani capaci di accogliere le richieste di un prodotto artigianale e le nuove opportunità imprenditoriali offerte dal mercato. Il settore, secondo le ultime stime, infatti, offre lavoro a circa 5mila under 35, con una crescita del +10% dell’export. Nonostante i numeri in continuo crescendo, nel settore è forte l’esigenza d’innovazione e sostenibilità, con la necessità di arrivare a definire una filiera corta a Km 0 per una birra artigianale 100% “made in Italy”.
Le sfide della “birra verde”. Una delle sfide principali per il settore è rappresentata dalla gestione, secondo un modello di economia circolare, degli scarti di produzione pari a circa il 90% delle materie prime utilizzate: si possono ad esempio recuperare e valorizzare i rifiuti di origine naturale per usi energetici al posto dei combustibili fossili. Altra questione spinosa è rappresentata dalle acque di processo che, invece di essere sprecate, potrebbero essere recuperate e riutilizzate direttamente in azienda con un notevole risparmio sui costi di produzione e sui costi ambientali. Un’altra sfida per il settore è la realizzazione di birre a basso contenuto in glutine, utilizzando cereali quali il sorgo bianco per uso alimentare, il frumento monococco e il Tritordeum. Vincere queste sfide potrebbe rappresentare l’occasione per lo sviluppo di una nuova filiera sostenibile, contrastando l’uso improprio del territorio e l’abbandono di aree coltivate.
Birra rinnovabile. Purtroppo non si tratta di una birra che si rinnova rimboccando il bicchiere… In termini di ecosostenibilità vanta un primato mondiale il birrificio Heineken di Massafra (Taranto), primo al mondo per produzione di energia fotovoltaica (3,3 MW) e per numero di pannelli solari (13mila) installati. A evidenziarlo è stata la società di consulenza Solarplaza, nella specifica classifica “Top 50 Solar Beer Breweries”. La stessa Heineken posiziona anche un altro stabilimento italiano (a Bergamo) nei primi dieci posti della classifica, grazie ad una quantità enorme di energia pulita generata, equivalente ai consumi annui di 310 famiglie. Anche se non è entrato nella speciale classifica Solarplaza, vale la pena di segnalare l’impianto fotovoltaico del birrificio Birra Castello, a San Giorgio di Nogaro (Udine), da 500 kWp: l’energia prodotta è interamente sfruttata per la produzione di birra e consente di ridurre le emissioni di CO2 per 445 tonnellate l’anno.
Vapori di birra. Sempre in tema di energia rinnovabile non c’è solo quella solare a essere sfruttata per la produzione di “bionde, rosse e scure”: l’esempio è Vapori di Birra, il primo birrificio artigianale italiano che utilizza il vapore geotermico come fonte energetica primaria per il processo industriale. La sede del birrificio si trova nel Parco delle Fumarole, area interessata da innumerevoli fenomeni geotermici dove la vegetazione ha ceduto il passo a getti di vapore, pozze gorgoglianti e sorgenti d’acqua caldissima.
Dalle materie prime ‘bio’ all’imballaggio ecologico. Nell’ambito della sostenibilità ambientale, c’è anche l’attenzione alle materie prime biologiche per la realizzazione delle birre. Una filosofia che si fa sempre più strada e ha la sua capostipite nella Wayan, la prima certificata in Italia, prodotto dal birrificio cuneese Baladin. Mentre la piccola azienda americana Saltwater Brewery ha detto addio ai tradizionali anelli di plastica che uniscono le lattine, finalmente sostituiti con un imballaggio realizzato grazie ai sottoprodotti della birra, tra cui orzo e grano. L’innovazione non è da poco: i nuovi anelli, infatti, sono interamente biodegradabili e compostabili. Ma c’è un altro aspetto importante. Il nuovo imballaggio finora ha rappresentato una minaccia per gli animali che spesso, in particolare in mare, vi restavano impigliati. Adesso, invece, è una risorsa: il materiale interamente commestibile potrà diventare cibo per pesci, tartarughe e uccelli.
Il giusto prezzo per una birra artigianale. In una gara di bontà una birra artigianale ben prodotta batterà sempre la migliore delle birre industriali: un artigiano usa soltanto i “cereali nobili”, cioè non impiega mai cereali economici come il riso e il mais, che si usano nell’industria per abbassare i costi. Altro fattore decisivo è il luppolo, infatti mentre i birrifici industriali impiegano soltanto un “estratto” che serve per rendere amara la birra, i birrifici artigianali usano invece lo strobilo (cioè l’infruttescenza del luppolo così com’è) e ne usano molto di più, spesso di diverse varietà che arrivano da svariate parti del mondo. In alcune birre ci sono altri ingredienti costosi, come spezie e frutta. Alla fine dei conti, mediamente, una buona birra artigianale costa almeno 2,50 euro, se comprata in uno spaccio aziendale, e più di 3,50 euro per birre di gradazione bassa in un classico market.
Alla salute… del Pianeta! Ricordando che impostare tutta la produzione di birra a basso impatto ambientale comporterebbe una cospicua riduzione dei livelli di CO2 emessi con un notevole e gustoso beneficio per l’ambiente.
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