Quando la scorsa estate, dopo avere a lungo oscillato intorno ai 110 dollari al barile, i prezzi del petrolio hanno cominciato a scendere, pochi avrebbero scommesso che, nel giro di pochi mesi, si sarebbero più che dimezzati. In questi giorni, lo stesso barile di greggio vale sul mercato intorno ai 48 dollari.
Eccesso di offerta. La ragione per cui i prezzi del petrolio hanno cominciato a scendere è probabilmente da ricercare nel fatto che sul mercato si sia venuto a creare un eccesso di offerta derivante dall’effetto combinato di una stabilizzazione della domanda di greggio e di una ripresa piuttosto consistente dell’attività estrattiva. Gli Stati Uniti, anche grazie al ricorso massiccio a tecniche di fracking per estrarre petrolio dalle rocce bituminose, hanno raggiunto livelli di produzione che non si vedevano da 30 anni a questa parte. Libia ed Iraq, nonostante le forti tensioni interne che li affliggono, hanno anch’essi aumentato significativamente la propria produzione.
Cos’ha fatto l’Opec. La dimensione del calo dei prezzi del barile ha presto acceso tensioni nei paesi produttori di petrolio, in particolare in quelli la cui economia poggia in modo decisivo sui proventi derivanti dall’esportazione di greggio e raffinati. Alla fine di novembre dello scorso anno, quando il prezzo del barile stava varcando la soglia degli 80 dollari, si è svolta una riunione dei paesi OPEC. Se a parole quasi tutti i membri del cartello invocavano prezzi più alti, nessuno di loro si dichiarava però disposto a ridurre la propria estrazione di petrolio per fare effettivamente aumentare i prezzi. Di fatto, solo l’Arabia Saudita avrebbe probabilmente potuto sopportare le conseguenze di un taglio produttivo, che, comunque, ha deciso di non fare. La riunione si è quindi risolta in un nulla di fatto, e la discesa dei prezzi è proseguita praticamente senza pause verso i nuovi minimi.
L’estrazione diventa poco sostenibile. Nei paesi produttori, la cui economia dipende fortemente dalle esportazioni di greggio, stanno emergendo problemi di sostenibilità fiscale. In questi paesi l’offerta di servizi pubblici è strettamente legata agli introiti dell’esportazione di petrolio. A fronte della contrazione di questi ultimi, i governanti devono scegliere se ridurre la fornitura di servizi o finanziarla accendendo nuovo debito. Anche laddove il prezzo del petrolio sia “tecnicamente sostenibile”, cioè più alto del costo di estrazione della risorsa, esso potrebbe comunque essere troppo basso per essere “fiscalmente sostenibile”. Sembra essere questo il caso in paesi come il Venezuela. In altri casi, invece, l’attuale livello dei prezzi è troppo basso per rendere economica la sua estrazione. I produttori americani che utilizzano le tecniche di fracking, con costi di estrazione superiori ai 60 dollari al barile, stanno già rallentando la produzione.
Vantaggi per i Paesi consumatori. Nei Paesi prevalentemente consumatori di petrolio, è il caso ad esempio dell’Italia, il calo dei prezzi dovrebbe portare dei vantaggi, sia sul fronte della bilancia commerciale energetica, sia su quello dei consumi, grazie al recupero di reddito disponibile derivante dal calo dell’inflazione. Il fenomeno, che nel contesto attuale è attenuato dal contemporaneo deprezzamento del cambio euro dollaro (il petrolio viene quotato in dollari USA), può anche avere temporanei effetti redistributivi. Dal momento che la componente energetica (di cui il petrolio ed i suoi derivati sono parte importante) ha un peso relativamente maggiore sul totale dei consumi delle persone a basso reddito, per queste l’incidenza sarà verosimilmente maggiore di quanto non lo sia per quelle a reddito elevato. In Italia, dove i prezzi al consumo dei prodotti raffinati e dell’energia rispondono lentamente al variare del prezzo della materia prima (anche grazie alla forte peso della componente fiscale sul prezzo finale), l’impatto per il consumatore finale è comunque già chiaramente percettibile. Un litro di benzina senza piombo, che nello scorso agosto costava intorno a 1,74 euro costa ora 1,45 euro, ben 30 centesimi in meno. Una famiglia che consumi cento litri al mese di benzina si trova a risparmiare 30 euro al mese rispetto a sei mesi fa; una cifra non trascurabile e disponibile per altri utilizzi.
Se il risparmio derivante dal calo dei prezzi del petrolio venga speso oppure no dipende però da molti fattori, uno dei quali è la percezione da parte dei consumatori sulle prospettive dell’inflazione futura. Se cioè, a fronte della pubblicazione di dati di inflazione negativi, si diffondesse la convinzione che in futuro il calo dei prezzi continuerà e coinvolgerà molte categorie di beni, se cioè ci si aspettasse deflazione, i consumatori, in attesa di prezzi più bassi, potrebbero posticipare le proprie decisioni di consumo. E’ proprio per scongiurare il rischio di deflazione che la BCE ha messo in campo l’artiglieria pesante, lanciando proprio in questi giorni il proprio programma di Quantitative Easing, con cui stamperà nuova moneta con la quale comprare sul mercato finanziario titoli di Stato e non solo.
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