Quanta ricchezza in più ci sarebbe se venisse sfruttata la forza lavoro delle donne? Dalla teoria nata nel 1999 alla situazione attuale in Italia...
Che cos’è Womenomics. Quanta ricchezza in più ci sarebbe in Italia se venisse sfruttata a dovere la forza lavoro femminile? A fare questo calcolo hanno pensato gli esperti in Womenomics, una teoria formulata nel 1999 da un’analista di Goldman Sachs, Kathy Matsui. Dimostrò che il suo Paese d’origine, il Giappone (dove, come in Italia, c’è un tasso di occupazione femminile molto più basso di quello maschile), avrebbe potuto guarire dalla depressione economica investendo sulle donne: calcolò che in Giappone un incremento del lavoro femminile avrebbe potuto avere un effetto di 0,3 punti base sulla crescita tendenziale del pil (da 1,2 a 1,5%) e aumentare di quasi il 6% (5,8%) il reddito delle famiglie per i successivi 20 anni. A quei tempi Matsui fece delle proposte che per l’Italia sono valide ancora oggi: aumentare il tasso di natalità migliorando le infrastrutture per l’infanzia; introdurre un regime fiscale favorevole alle famiglie; migliorare i congedi per maternità; incentivare l’avanzamento professionale delle donne.
Donne che fanno crescere il pil. Spiega Maurizio Ferrera, professore presso l’Università degli Studi di Milano e autore del libro Il fattore D. Perché il lavoro delle donne farà crescere l’Italia: «L’ingresso nel mercato di 100 mila donne oggi inattive farebbe crescere il nostro pil di 0,3 punti l’anno. Quindi 1 milione di donne immesse nel mondo del lavoro farebbe crescere il pil di 3 punti. Ogni 100 donne che entrano nel mercato del lavoro si creano 15 posti aggiuntivi di lavoro e di occupazione». Ogni donna che inizia a lavorare, infatti, avrà necessità di delegare il lavoro di casa ad altri: spesa e commissioni, cura dei figli, degli anziani, della casa. In questo modo ogni donna occupata genera nuove domande di lavoro in altri settori. Quindi, dice la teoria womenomics, se le donne entrassero considerevolmente nel mondo del lavoro si creerebbero nuovi posti di lavoro, l’economia famigliare ne beneficerebbe, il Pil aumenterebbe.
Se ci sono donne c’è meno crisi. Una maggiore presenza femminile nel mondo del lavoro, dunque, sarebbe un vero toccasana in periodi di crisi. Tanto più che le ricerche dimostrano che le aziende con tante donne dirigenti sanno resistere meglio alla difficile congiuntura economica (anche questo aspetto era stato notato da Matsui già nel 1999). Annamaria Tarantola, vicedirettore generale della Banca d’Italia, dice: «È dimostrato che le aziende con più donne ai vertici hanno una probabilità minore di entrare in crisi e di fallire». Addirittura sembra che le aziende con tante donne manager facciano quasi il doppio dei profitti di un’azienda tradizionale.
Le donne al vertice. Secondo una ricerca del Cerved, tra il 2001 e il 2007 le aziende comprese nella fascia di fatturato più alta, oltre i 200 milioni di euro annui, con tante donne nel cda, hanno incrementato i ricavi a un ritmo medio dell’8,8% annuo, rispetto all’8,6% annuo di quelle prettamente maschili. Nella fascia di fatturato compresa tra i 50 e i 200 milioni di euro la differenza è ancora più netta: qui i valori di riferimento sono il 7,7% delle imprese femminili contro il 6,5% di quelle maschili. Infine, nella fascia delle imprese con ricavi compresi tra i 10 e i 50 milioni di euro, i ricavi delle società femminili sono cresciuti a un tasso del 3,6 % l’anno, mentre quelli delle società maschili sono cresciuti ad un tasso del 2,7%.
Le donne in Europa. L’Eurostat, ufficio statistico della Ue, rivela che il tasso di donne occupate in Italia deve crescere ancora. Da noi tra le donne senza figli in età compresa tra 25 e 54 anni lavora il 63%. La media dell’Unione è del 75,8%: in Germania il tasso, per la stessa fascia di età, è dell’81,8%. Purtroppo in alcune zone d’Italia la situazione è più difficile: tra le giovani donne del Sud e delle isole dove, secondo l’Istat, il 39% è in cerca di occupazione.
Le donne in Italia. Complice la crisi, in Italia dal 2008 al 2010 l’occupazione femminile è leggermente diminuita (1,1%). Nei primi tre trimestri dello scorso anno sono state 45mila le giovani che hanno perso il lavoro.
Le retribuzioni. 276 euro: la differenza nelle retribuzioni medie nette mensili tra uomini e donne registrate in Italia nel 2010.
World economic forum. Il World economic forum, nel suo rapporto “The global gender gap 2011” (l’ultimo pubblicato), è piuttosto rassicurante: «Negli ultimi sei anni l’85% dei Paesi del mondo ha migliorato la condizione della donna». Il paese più women friendly è l’Islanda: lo era nel 2009, nel 2010, si è riconfermato nel 2011. Qui è stato raggiunto il più alto livello di parità dei sessi: scuola, lavoro, politica, salute. Il luogo peggiore è lo Yemen, quello più pericoloso l’Afghanistan. L’Italia occupa il 74° posto su 135 nella classifica internazionale: stessa posizione del 2010 ma peggiore rispetto al 2009 (72° posto) e al 2008 (67°).
L’inattività. Le “inattive”, cioè quelle donne che vorrebbero lavorare ma hanno smesso di cercare un’occupazione perché pensano che non la troveranno. In Italia ci sono 1.200.000 ragazze sotto i 30 anni che non lavorano, non studiano e non fanno corsi di formazione.
L’Isfol. L’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori (Isfol) dice che le cause dell’inattività femminile vanno spesso ricercate «nella divisione del lavoro domestico all’interno della famiglia e al profilo del sistema di welfare italiano, caratterizzato da una scarsa incidenza di servizi alle famiglie e, in generale, poco incline alla conciliazione vita-lavoro delle donne».
L’intraprendenza femminile. Eppure l’intraprendenza è soprattutto femminile: tra giugno 2010 e giugno 2011 le imprese fondate da donne sono aumentate dello 0,7%, contro lo 0,2% delle imprese guidate da uomini (dati Unioncamere).
La crescita del lavoro. Ma allora cosa ostacola la crescita di lavoro al femminile, se tutti i numeri depongono a suo favore? Daniela Del Boca, economista del Collegio Carlo Alberto di Torino e autrice del libro Valorizzare le donne conviene (scritto assieme a Letizia Mencarini e Silvia Pasqua), è convinta che certi luoghi comuni influiscano negativamente. Il primo è che se le donne restano a casa fanno più figli: «L’Italia è l’esempio eclatante che ormai vale il contrario: in tutto l’Occidente sono i Paesi dove le donne partecipano di più al mercato del lavoro quelli con una fecondità più alta». Un’altra falsa convinzione è quella secondo cui le donne che lavorano di più sono madri peggiori: «Il benessere dei bambini è legato invece alle condizioni economico-sociali della famiglia, che migliorano se la donna lavora».
Servizi per facilitare. Cosa fare praticamente per incrementare il lavoro femminile? Il professor Maurizio Ferrera pensa in primis ai congedi parentali «per incentivare il ruolo del padre nella cura dei figli e anche per evitare che le carriere delle donne siano influenzate negativamente da una concentrazione del congedo solo sulla madre». Nel 2007 in Germania la riforma dei congedi per nascita dei figli è stata molto apprezzata non solo dalle madri ma anche dai padri (la percentuale di congedi maschili è triplicata in quattro anni). Poi si potrebbe pensare ad agevolazioni fiscali, come accade già altrove (per esempio in Francia, dove sono riusciti a creare in pochi anni mezzo milione di nuovi posti di lavoro femminile): «Bisogna rendere più conveniente il lavoro delle donne. Per esempio, attraverso forme di incentivazione fiscale per premiare il lavoro delle donne più di quello maschile». Un’altra spinta al lavoro femminile potrebbe arrivare dal miglioramento «dei servizi (per esempio gli asili) che consentano alle donne di conciliare la famiglia e il lavoro».
I fondi. L’Italia è ultima in Europa per fondi dedicati alle politiche famigliari (4,5% del totale delle spese per la protezione sociale, contro l’8,2% della zona euro) (dati Sole 24 Ore).
Gli asili nido. L’incremento del numero degli asili nido del 10% potrebbe far aumentare del 7-12% la probabilità di lavorare delle donne. Un aumento del 10% del part-time potrebbe inoltre far crescere la probabilità di essere occupata dal 5% al 10% (dati Sole 24 Ore).
Il part time. Secondo i dati Istat, in Italia un milione e mezzo di donne tra i 25 e i 54 anni lavora part time (nel Nord Europa è l’80%).
L’occupazione familiare. Nella fascia di età compresa tra i 25 e i 54 anni in Italia sono oltre 8 milioni le donne che si occupano di figli, famiglia e parenti bisognosi. Inoltre il 68,8% delle donne al Centro Nord e il 34,6% delle donne al Sud e nelle Isole ha anche un’occupazione retribuita. Nel 90% dei casi il reddito delle donne partecipa all’economia familiare per almeno il 40%.
Tempo libero. Il Censis segnala che le donne italiane hanno 7 ore settimanali di tempo libero in meno rispetto agli uomini.
Una donna al Quirinale. C’è ancora da fare per sfruttare pienamente l’apporto femminile nel mondo del lavoro, nella società e nella politica. Con ottimismo lo ha segnalato anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: «Più le donne si faranno sentire, prima arriverà, e mi auguro presto, il momento in cui ci sarà anche una candidata donna a presidente della Repubblica e potrà essere eletta».
Per poter visualizzare i commenti devi accettare i cookie facoltativi, clicca qui per cambiare le tue impostazioni sui cookie.