Brexit, il White Paper che non risolve i problemi

Il governo May ha diffuso un Libro Bianco con gli obiettivi della "sua" Brexit soft che, scontenta sia i duri-e-puri dell'uscita sia l'UE. Ma l'accordo va trovato entro ottobre

Mentre il governo May combatte ogni giorno per ottenere dal Parlamento l’ok a una serie di piani alternativi nel caso in cui l’uscita concordata dall’UE non andasse in porto entro il termine stabilito (per esempio, una proposta di legge per rinegoziare un accordo sull’unione doganale in caso di mancata intesa entro il 21 gennaio 2019), il 12 luglio lo stesso governo ha reso noto il documento di 104 pagine che illustra i cinque punti chiave del suo piano per la Brexit. È il cosiddetto White Paper.

Il Libro Bianco della Brexit. Questo documento definisce le priorità del negoziato secondo l’esecutivo UK e segue la linea della “soft Brexit” indigesta agli ex ministri David Davis e Boris Johnson, che infatti si sono dimessi (il primo era incaricato di seguire i negoziati con la UE), e duramente criticata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, cui non va giù che l’Unione Europea continui ad avere un ruolo comunque importante nelle questioni economiche britanniche (in generale non gli va giù l’UE, ma questo è un altro discorso). La premessa ricorda l’obiettivo del documento, che è quello di rispettare il risultato del referendum del 23 giugno 2016, con il 52% degli elettori che votò a favore dell’uscita.

La strategia dei due forni. Quindi i due forni: da un lato la circolazione delle merci, su cui il White Paper conferma vaste aree di libero scambio con regole comuni; dall’altro la circolazione di persone, capitali e servizi, su cui l’atteggiamento ben è più rigido, anche se sono già state annunciate apposite norme per agevolare la mobilità di studenti, lavoratori qualificati, turisti e titolari di attività economiche. Non dovrebbero esserci ribaltamenti, invece, per chi già lavora e vive in Gran Bretagna e per i cittadini britannici che lavorano fuori. Cambio di registro, poi, sulla Corte di Giustizia Europea, che non avrà più giurisdizione diretta sulla Gran Bretagna, salvo in caso di controversie, sulle quali la Corte UE dirà l’ultima parola.

La bocciatura dei duri-e-puri e dell’UE. Uno degli obiettivi che più premono a Londra è risolvere in maniera soddisfacente la questione del confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda. Ma il White Paper, così strutturato, non soddisfa nessuno: né i duri-e-puri della Brexit né l’Unione Europea, secondo cui la Gran Bretagna non può scegliere cosa tenere e cosa lasciare. Insomma, tutti concordano su un punto: o dentro o fuori. Il governo britannico, che è espressione del Partito Conservatore, si trova dal canto suo di fronte alla missione quasi impossibile di rispettare la volontà popolare proteggendo allo stesso tempo aziende e posti di lavoro per non compromettere l’economia nazionale.

Trump contro May. In mezzo a tutto questo scompiglio, il presidente Trump si è lanciato come una palla da bowling fra tanti birilli già traballanti per lo strike finale: nei giorni della sua visita in Europa non solo ha criticato il White Paper accusando il governo di aver ceduto alle richieste di Bruxelles, ma si è anche tirato indietro circa la possibilità di negoziare un accordo di libero scambio tra USA e Regno Unito, perché dal suo punto di vista c’è ancora troppa Unione Europea di mezzo.

La tabella di marcia. Sia come sia, dal 29 marzo 2019 il Regno Unito non farà più parte dell’UE, anche se vi rimarrà legato per un periodo transitorio che si concluderà il 31 dicembre 2020. Durante questa fase potrà ratificare nuovi accordi commerciali con Paesi terzi, che saranno effettivi solo dopo la transizione, ma non potrà più partecipare al processo decisionale dell’UE. Tutto questo è già deciso e approvato. Ma bisogna vedere come la Gran Bretagna arriverà a marzo: spaccature interne e pressioni esterne rischiano di mettere fine all’esecutivo May e incrementare le probabilità di arrivare alla fatidica data senza un accordo, cosa che renderebbe il Regno Unito un Paese come tanti altri, sottoposto alle regole e alle tariffe della WTO. Per scongiurare questo esito, l’accordo definitivo dovrebbe essere siglato entro ottobre, per poi passare al vaglio del Consiglio e del Parlamento Europeo.

I mercati finora hanno retto. Passati oltre due anni dal referendum, l’economia sta andando piuttosto bene, tanto che la Bank of England sta dibattendo su possibili nuovi rialzi dei tassi. I mercati, superato lo shock iniziale, hanno reagito in modo diverso: all’inizio di luglio, quando era da poco passato il secondo anniversario dal referendum, l’azionario risultava in rialzo del 13,8%, mentre la sterlina di fatto ha sofferto, così come l’obbligazionario. Va comunque detto che il redde rationem non si è ancora consumato in virtù del contesto globale finora favorevole. Un quadro felice che sta venendo meno: le economie dei Paesi Sviluppati stanno decelerando e il Regno Unito fa peggio di USA e area euro. Poi c’è tutto il tema delle tensioni commerciali. E se è vero che la storia recente ci insegna a non essere troppo pessimisti, è anche vero che la Gran Bretagna deve decidere se stare fuori o dentro l’UE, evitando un limbo che le farebbe perdere forza e competitività.

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