Arcelor-Mittal ha annunciato il ritiro dall’acquisto dell’Ilva, mettendo in grave pericolo le sorti economiche dell’Italia e dei 10.000 dipendenti dell’azienda. Il costo per il nostro Paese si aggirerebbe intorno ai 24 miliardi di euro
Alla fine, la mossa dell’Arcelor-Mittal è arrivata: il 4 novembre il colosso mondiale dell’acciaio di proprietà franco-indiana ha comunicato di voler interrompere l’iter per l’acquisizione dell’ex Ilva. Le motivazioni? Da una parte c’è l’abolizione dello scudo penale, dall’altra la frenata del mercato siderurgico che interessa l’Europa intera. Purtroppo, però, la decisione della multinazionale franco-indiana mette in pericolo le sorti dell’economia italiana, oltre che di 10.000 lavoratori fra gli stabilimenti di Taranto, Novi Ligure e Cornigliano. Dal settore automobilistico a quello edile, dagli elettrodomestici all’imballaggio: non c’è settore industriale che non verrà colpito dalla difficile situazione dell’acciaieria italiana.
Storia della più grande acciaieria d’Europa. La storia dell’ex Ilva ha radici molto lontane: era il 1882 quando lo Stato italiano decise di trasformare il golfo di Taranto in un punto strategico militare, che portò poi nel 1961 alla creazione del più grande polo industriale del sud Italia. Venne inaugurato così nel 1965 lo stabilimento Italsider di Taranto. In breve tempo divenne il più grande e importante stabilimento di ferro e acciaio d’Europa, che riforniva mezzo Vecchio Continente. Poi arrivarono la grande crisi degli anni ‘80 e la privatizzazione: Italsider venne acquisita nel 1995 dal gruppo Riva, assumendo il nome di “Ilva”. Nel 2012 la magistratura tarantina dispose il sequestro dell’acciaieria per “gravi violazioni ambientali”, definendola come una “fabbrica di malattia e morte”. Il gruppo Riva venne indagato, l’ex Ilva commissariata. Fino al bando pubblico del 2016: a vincere la gara fu proprio Arcelor Mittal, che si impegnò ad assumersi onori e oneri del rilancio dell’ex Ilva, con la condizione che potesse usufruire di una protezione legale per attuare il suo piano ambientale di bonifica.
Perché Arcelor-Mittal si sta tirando indietro? Ci sono due ragioni. La prima è proprio il venir meno dello scudo penale per i nuovi amministratori della società, che li avrebbe tutelati dall’essere perseguiti per inquinamento eccessivo, almeno fin quando il piano di bonifica ambientale fosse stato ultimato. Va chiarito infatti che l’ex Ilva è da anni in una posizione irregolare dal punto di vista ambientale, in quanto inquina più di quanto consentito. Inoltre, l’acciaieria perde tra uno e due milioni di euro al giorno, a causa soprattutto dei dazi imposti dall’amministrazione Trump. Non solo: le perdite si devono anche al rallentamento del settore industriale europeo, che non richiede acciaio come una volta. In sintesi, c’è troppa capacità produttiva rispetto alla domanda. E in questo settore i costi fissi sono elevati perché si produce a ciclo continuo. Questo significa che non è possibile fermare e riavviare un’acciaieria a piacimento senza dovere sopportare inefficienze e costi aggiuntivi.
Qual è il costo per l’Italia? La chiusura dell’ex Ilva costerebbe al Paese quasi 24 miliardi: l’Italia perderebbe quasi l’1,4% del PIL e 10.000 posti di lavoro. È quanto emerge da un’analisi econometrica dello Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, commissionata a giugno dal Sole 24 Ore. Secondo l’analisi, dal sequestro dello stabilimento avvenuto a luglio 2012 a oggi sono andati perduti “23 miliardi di euro di PIL, l’1,35% cumulato della ricchezza nazionale”. E in caso di abbandono da parte di Arcelor-Mittal? A parte la perdita dell’1,4% del nostro Prodotto Interno Lordo, il costo medio per i conti pubblici sarebbe di 25.770 euro per ognuno dei 10.777 addetti, più le spese degli altri 6 mila addetti dell’indotto e la loro riconversione, per arrivare a 585 milioni di euro. A questi vanno aggiunti quasi 350 milioni per la cassa integrazione dei 5.000 addetti rimasti fuori dall’ex Ilva e dei 6.000 dell’indotto, compresa la loro riqualificazione, per un totale di circa 835 milioni di euro. L’Italia perderebbe inoltre quegli investimenti ambientali che l’Arcelor-Mittal aveva promesso: 2,4 miliardi, gran parte dei quali destinati all’ambiente. Perdere l’ex Ilva equivarrebbe quindi a mettere in pericolo il cuore del sistema industriale italiano.
Cosa succede ora? Il governo sta cercando di trovare una soluzione: il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha incontrato i vertici dell’azienda, senza però alcun successo finora. Arcelor-Mittal chiede l’esubero di 5.000 dipendenti, ritenuto inaccettabile dal governo, che è disponibile però a ripristinare l’immunità penale. L’azienda, dal canto suo, ha già depositato presso il Tribunale di Milano l’atto di disimpegno, oltre ad aver fermato l’approvvigionamento delle materie prime e rifiutato alcune commesse. In sostanza, la multinazionale ha già sancito la sua intenzione di lasciare le acciaierie di Taranto. Quindi? Il governo sembra avere un piano B: il ritorno della gestione ai commissari, un prestito ponte di 700-800 milioni e una nuova gara d’appalto con capofila Cassa Depositi e Prestiti più Leonardo e Fincantieri. Per il governo sarebbe possibile accettare tra i 2.000 e i 2.500 esuberi, che saranno tutelati attraverso un “Fondo pluriennale per il sostegno ai lavoratori”, da inserire nella Legge di Bilancio con uno stanziamento iniziale di 5-10 milioni. La partita con il colosso franco-indiano, però, non è ancora finita.
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