La crescita nell'Eurozona è robusta ma l'inflazione deve ancora mostrare segnali più convincenti di un aggiustamento verso l'alto, secondo il numero uno della Banca Centrale Europea Mario Draghi. I numeri dell'Eurostat gli hanno dato ragione, finora
“Ca ci sta l’inflazione, la svalutazione e la Borsa ce l’ha chi ce l’ha”, cantava Fabrizio De André nella sua indimenticata “Don Raffaè”, dall’album Le nuvole del 1990. All’epoca, in Italia, l’inflazione era nella playlist di tutti, politici, economisti e comuni cittadini: nel gennaio di quell’anno, per dire, era cresciuta del +6,6% rispetto allo stesso mese dell’anno prima. E questo – ai tempi c’era ancora la lira – era un problema, dal momento che un aumento di quella entità erodeva e non di poco il potere d’acquisto degli italiani e la consistenza dei loro risparmi.
Massima allerta sui prezzi. Non a caso oggi, nell’epoca dell’euro, la Banca Centrale Europea, che nel ruolo di supervisore di tutto il sistema ha sostituito le autorità bancarie nazionali, è estremamente attenta alla variazione mese per mese e anno per anno dell’inflazione, che poi altro non è che l’aumento dei prezzi di beni e servizi. Se la variazione è negativa o irrisoria, è un problema perché vuol dire che l’economia non cresce: i prezzi non salgono fondamentalmente perché non c’è domanda e i consumi languono. Se invece cresce troppo, allora, come accennato, il nostro portafoglio e i nostri risparmi ne risentono. Ecco quindi che l’obiettivo della BCE e di altre sue colleghe – come la Federal Reserve, per esempio – è quello di mantenere la crescita dell’inflazione attorno a un tasso prestabilito (il 2% annuo), non troppo alto e che, anzi, è persino salutare.
In Europa l’inflazione arranca ancora. Tutto ciò premesso, quali segnali ci arrivano oggi dall’inflazione? Il 26 febbraio il presidente della BCE Mario Draghi, in audizione alla Commissione Affari Economici del Parlamento Europeo, ha detto: “la crescita nell’Eurozona è robusta, ma l’inflazione deve ancora mostrare segnali più convincenti di un aggiustamento verso l’alto”. E in effetti, a stretto giro, l’ufficio statistico dell’Unione Europea (Eurostat) ha fatto sapere che a gennaio il tasso di inflazione annuale dell’area euro è stato dell’1,3%, in calo rispetto all’1,4% di dicembre. Il contributo maggiore è arrivato dai servizi (+0,56 punti percentuali), seguiti da prodotti alimentari, alcol e tabacco (+0,39 punti percentuali), energia (+0,22 punti percentuali) e beni industriali non energetici (+0,15 punti percentuali). A livello UE, la variazione è stata dell’1,6%, giù dall’1,7% di dicembre.
Timida ripresa negli States. Negli Stati Uniti, a gennaio, il Consumer Price Index è salito di appena lo 0,5%, comunque più dello 0,4% atteso, mentre nei 12 mesi precedenti l’incremento è stato del 2,1%, superiore all’1,9% che si aspettavano gli analisti. Il dato “core”, depurato dalle componenti più volatili, ovvero energetica e alimentari, è salito dello 0,3% su base mensile e dell’1,8% nell’anno, rispetto all’1,7% previsto dagli operatori. Il presidente della Federal Reserve Jerome Powell, nella sua prima testimonianza semestrale al Congresso in qualità di numero uno della banca centrale USA, ha detto: “l’inflazione, rimasta sorprendentemente al palo nel corso del 2017 per via di fattori probabilmente transitori che non si ripeteranno, tornerà a crescere intorno a un tasso annuo del 2% nel medio termine”. Ovviamente, molto dipende dalla crescita dei salari (più i consumatori guadagnano e più spendono, facendo salire la domanda e a seguire i prezzi), finora limitata forse dal debole incremento della produttività. Tuttavia, le paghe hanno continuato ad aumentare “moderatamente” e in alcuni casi hanno visto una “modesta accelerazione”.
Non manca molto a una ripresa più convinta. Insomma, se da una parte la tanto temuta fiammata – addotta come causa della correzione avvenuta sui mercati i primi di febbraio – ancora non si vede, dall’altra la crescita economica che si registra un po’ dappertutto presto o tardi imprimerà un’accelerazione al recupero dell’occupazione, dei salari e dei consumi. Determinando così un più forte e deciso rialzo del livello dei prezzi. E infatti i mercati hanno cominciato a prezzare un’inflazione a cinque anni via via più alta. Certo, dal trend reale il recupero a livello globale non pare così evidente: ma se prendiamo i Paesi Sviluppati, possiamo già intravedere un primissimo barlume di ripresa.
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