I tagli alla produzione e vari fattori geopolitici hanno messo il turbo ai prezzi del greggio. Ora i tempi sembrano maturi per uno stop alla riduzione dell’output: i mercati ci scommettono e le quotazioni sono scese. E adesso?
Lo scorso dicembre a Vienna si è svolta la seconda riunione annuale dell’OPEC (https://vocearancio.ing.it/va-petrolio-opec-opec-nuovo-scacchiere-mondiale/), alla quale hanno preso parte anche 10 Paesi esportatori di petrolio che non sono membri. Con l’obiettivo di fronteggiare il calo dei prezzi, i membri dell’Organizzazione e i loro alleati hanno varato un taglio della produzione per la durata di sei mesi, eventualmente estendibili. Anche per effetto di questa decisione, da inizio anno l’oro nero ha registrato un incremento di quasi il 30% fino alla fine di aprile, quando le quotazioni hanno un po’ ripiegato. E ora?
Prima su, poi (un po’) giù. Cominciamo col dire che a dare carburante al rialzo nei primi quattro mesi dell’anno è stata anche la contrazione dell’offerta dovuta a vari fattori geopolitici, nella fattispecie la crisi venezuelana, le tensioni in Libia e lo stop alle importazioni di petrolio iraniano. Poi è iniziata a circolare l’idea che l’OPEC e il suo leader, l’Arabia Saudita, potessero valutare uno stop ai tagli della produzione per venire incontro alla domanda. Cosa tutta da confermare. Intanto, questo è il risultato finora. Quando si parla di petrolio solitamente vengono utilizzati come riferimento due particolari tipologie: il Brent e il WTI. Il Brent viene estratto nel Mare del Nord e i relativi contratti futures sono scambiati sul mercato di Londra; il WTI, invece, viene estratto nel sud degli Stati Uniti e i relativi contratti futures sono scambiati a New York.
Tra tagli e sanzioni. Ma dicevamo, le tensioni geopolitiche. Il 2 maggio, allo scadere della deroga precedentemente concessa ad alcuni importanti Paesi consumatori (tra cui India e Cina), gli Stati Uniti hanno escluso l’Iran dai mercati vietando del tutto le esportazioni del suo petrolio, con l’obiettivo di fiaccare il regime precludendogli la principale fonte di entrate. In più, come accennato, c’è stato l’acuirsi delle non trascurabili crisi in Libia e Venezuela. Gli Stati Uniti hanno provato a rassicurare i mercati promettendo un coordinamento con l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi e gli altri Paesi OPEC che consenta di compensare la minore offerta. Ma non sempre – come dimostrano i tweet del presidente USA Donald Trump, secondo il quale l’Organizzazione potrebbe e dovrebbe fare di più per tenere i prezzi bassi – il dialogo tra gli States e i leader OPEC fila liscio.
OPEC: c’è attesa per la riunione di giugno. L’Organizzazione che riunisce i Paesi esportatori di Africa, Medioriente e Sud America avrebbe dovuto incontrare gli altri maggiori Paesi produttori l’8 aprile per fare il punto. Ma, a sorpresa, la riunione è stata annullata. E quindi ogni valutazione è rinviata al meeting in programma il 25 e 26 giugno. Qui si dovrebbe decidere se estendere i tagli fino a fine anno. La domanda è: ha senso mantenerli? In questo quadro, a metà maggio la stessa OPEC ha diffuso il suo rapporto mensile sul mercato petrolifero, che rivede al rialzo le stime sulla domanda di greggio OPEC nel 2019. Nel dettaglio, i numeri sono stati ritoccati di 300 mila barili al giorno rispetto al rapporto precedente, a 30,6 milioni di barili al giorno, un valore comunque inferiore di un milione di barili al giorno rispetto al livello del 2018. E l’offerta? Nel primo trimestre del 2019, la produzione di greggio OPEC crude ha totalizzato una media di 30,5 milioni di barili al giorno, dato abbastanza in linea con la domanda. Ma c’è da tener conto della produzione non OPEC e delle scorte mondiali. Vinceranno i numeri e le stime, e quindi i tagli verranno mantenuti, o le pressioni di un importante produttore e consumatore, come appunto gli USA? Vedremo.
Attenzione ai focolai in Medioriente. Tutte queste considerazioni si svolgono sullo sfondo di uno scenario internazionale di cui non si può non tenere conto. Come ricostruisce Mario Sechi su List, due petroliere saudite e altrettante navi commerciali sono state recentemente attaccate all’ingresso del Golfo, Riad ha denunciato questi attacchi come “atti sovversivi” e ha chiamato in causa “i ribelli yemeniti Huothi sostenuti dall’Iran”. Tale gruppo ha in effetti rivendicato un attacco via drone su alcune stazioni di pompaggio in Arabia Saudita. Nel timore di ritorsioni di matrice iraniana in terra irachena, il dipartimento di Stato USA ha ordinato “a tutto il personale non essenziale” del governo di lasciare l’Iraq, mentre la portaerei USS Abraham Lincoln puntava verso lo Stretto di Hormuz. In Iran il presidente Rouhani ha garantito che il Paese è pronto a superare i limiti e i problemi posti dalle sanzioni USA, mentre l’ayatollah Ali Khamenei ha fatto intendere che l’arricchimento dell’uranio a scopo militare non sarebbe così complicato.
Sembra remota politica estera al sapor di Risiko, e invece sarà importante monitorare questi dossier perché avranno un impatto sui mercati finanziari – in primis quello delle materie prime – e, di conseguenza, sulle scelte e i portafogli d’investimento.
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