C’è chi ha plaudito la rimonta dei Democratici e chi invece ci ha visto una conferma del sostegno al presidente Trump: le elezioni USA di metà mandato si sono risolte con un Congresso diviso. Cosa significa per chi investe?
Anatra zoppa o “successo straordinario”? Domanda destinata a restare senza risposta, dopo le recenti elezioni di metà mandato negli Stati Uniti, che si tengono ogni due anni per eleggere i membri della Camera e un terzo del Senato (i senatori restano in carica sei anni, ma il loro mandato non scade nello stesso momento) e si sono concluse questa volta con una vittoria dei Democratici alla Camera e una conferma dei Repubblicani al Senato. C’è chi nell’esito del voto ha scorto l’inizio di una rimonta dei Democratici, chi invece ci ha visto una conferma della popolarità, almeno fra gli strati più conservatori della popolazione, del presidente in carica Donald Trump. Chi ha ragione?
La doppia lettura del risultato. Mentre il voto era alle battute finali, Trump consegnava a Twitter questo commento: “Un successo straordinario stasera. Grazie a tutti!”. In effetti – primissima considerazione oggettiva – una Camera a maggioranza democratica potrebbe teoricamente avviare la procedura di messa in stato di accusa del presidente per le questioni relative ai suoi affari di famiglia e al dossier “Russiagate”, ma le speranze di poter ottenere un riscontro favorevole dal Senato repubblicano sono pressoché nulle: l’impeachment, infatti, richiede l’ok da parte dei due terzi di quest’ala del Congresso USA. Quanto al sostegno del Paese al suo presidente, c’è chi fa notare come il voto per la Camera – che ha fatto registrare un’affluenza da record – fosse su base nazionale, mentre per il Senato ha votato solo un terzo degli Stati, che sono in linea di massima i più conservatori. Questo sembrerebbe deporre a favore dei Democratici. L’unico fatto certo è che la partita per le presidenziali 2020 si è appena aperta e i Dem devono ancora trovare il loro “frontman”.
Cosa cambia dopo il voto. Sia come sia, l’esito del voto ha confermato in pieno le previsioni di analisti, gestori e investitori. Un Congresso diviso rende l’iter di approvazione di leggi e riforme mediamente più tortuoso. L’esempio principe è il bilancio: più di un commentatore ha fatto notare che, stanti così le cose, si rischia lo shutdown, cioè lo stallo nel cammino verso il varo delle nuove misure. Un’esperienza che non mancherebbe di precedenti: è accaduto sotto la presidenza di Ronald Reagan (Repubblicano) e con Barack Obama (Democratico) alla Casa Bianca. Sul fronte fiscale, ciò riduce a zero le chance di un’ulteriore riforma: quella varata dall’amministrazione Trump lo scorso anno, che ha prodotto apprezzabili effetti sul fronte macroeconomico e su quello degli utili societari, si esaurirà il prossimo anno, ma è assai improbabile una revisione sia nel senso voluto dai Democratici, con un’estensione dei benefici alle famiglie a basso reddito, sia nelle modalità favorite dai Repubblicani (o comunque dal team del presidente).
Poche novità in vista su infrastrutture e commercio. Allo stesso modo, non pare granché probabile un’intesa in materia di infrastrutture: un tema, questo, caro sia ai Democratici sia all’amministrazione Trump, ma le idee su come e dove intervenire sono alquanto distanti. Lato commercio internazionale, una Camera a maggioranza democratica pone qualche interrogativo sul varo dell’accordo appena raggiunto fra Stati Uniti, Messico e Canada (lo USMCA, che ha mandato in soffitta il NAFTA del 1994), ma in realtà sulla condotta generale delle trattative, in primis con la Cina, non sono da attendersi chissà quali cambiamenti: il presidente ha i poteri per agire in autonomia. Le uniche sollecitazioni di rilievo potrebbero arrivare dalla “Corporate America” – base elettorale importante per i Repubblicani – e dai consumatori, qualora cominciassero a farsi sentire seriamente gli effetti dei dazi.
La reazione composta dei mercati. Nell’immediato, la reazione degli investitori al risultato elettorale è apparsa abbastanza tiepida. Con la prospettiva di nuove agevolazioni fiscali che è venuta meno e lo scenario di uno stallo sul bilancio che invece sembra più concreto, il dollaro USA e i tassi si sono indeboliti, mentre a Wall Street, giovedì 8 novembre, l’S&P 500 si è riportato sopra i 2.800 punti e il Nasdaq ha beneficiato del traino delle FAANG (Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Google). Certo, l’“anatra zoppa”, ovvero una Casa Bianca alle prese con un Congresso diviso, potrebbe comportare maggiore volatilità sull’azionario nei prossimi mesi. Qualche osservatore fa comunque notare come questo mercato abbia in linea di massima registrato performance positive l’anno successivo al voto di midterm: fermo restando che l’andamento passato non ci dà alcuna garanzia su quello futuro, i dati storici rivelano come il terzo anno di mandato di ogni presidente sia stato il migliore per il mercato USA nei quattro di presidenza.
L’impatto sui portafogli. Stante quanto detto, cosa fare con la parte di risparmi eventualmente investita nei mercati o nella valuta USA? Niente, in realtà: per chi ha un orizzonte d’investimento di medio-lungo periodo, ha poco senso modificare l’allocazione in questo momento. Ha invece molto senso continuare a monitorare i fondamentali delle aziende e del Paese, con le opportunità e i rischi annessi e connessi. Posto che questi, più che alla congiuntura elettorale, appaiono decisamente più sensibili agli effetti del contesto di crescita globale e della relativa dinamica dei tassi d’interesse, con uno sguardo implicito all’inflazione e alle quotazioni del petrolio, senza tralasciare gli sviluppi commerciali e geopolitici (vedi alla voce “Iran”). Valgono le tre regole auree di sempre: emotività sotto controllo, attenzione agli obiettivi di lungo termine e adeguata diversificazione, anche geografica.
Per poter visualizzare i commenti devi accettare i cookie facoltativi, clicca qui per cambiare le tue impostazioni sui cookie.