Andrea Mongia è uno dei nostri talenti più apprezzati nel mondo: qui ci racconta il suo stile e il suo percorso. E dà un paio di consigli a chi vuole provare la strada dell'illustrazione
Conosci Andrea Mongia? Te lo presentiamo noi. È uno dei giovani illustratori italiani più apprezzati nel mondo, ha pubblicato su alcune delle testate più prestigiose dell’editoria globale: New Yorker, New York Times, Wall Street Journal, The Guardian, per dirne alcuni. Nel 2019 Forbes lo ha inserito tra i 30 under 30 europei che più influenzeranno le arti e la cultura del continente.
In questi ultimi anni c’è stata una riscoperta dell’illustrazione come strumento per comunicare. E lui ne è tra i protagonisti. Abruzzese, classe 1989, la definisce «arte applicata», perché in grado di intercettare ambiti diversi tra loro, adattandosi alle loro regole e alle loro esigenze: quotidiani, riviste, pubblicità, manifesti, libri. Ma come è nata questa passione? Te lo racconta qui, su VoceArancio.
Quando hai capito che volevi fare l’illustratore?
«Non c’è stato un momento vero e proprio, non sapevo nemmeno che lavoro facesse di preciso un illustratore. Dopo il liceo artistico sapevo solo che volevo collocarmi nel mondo delle arti visive. Il mio piano era frequentare l’Accademia di Belle Arti».
Cosa ha fatto deviare il piano verso l’illustrazione?
«Molto semplicemente la possibilità di una borsa di studio allo IED, l’Istituto Europeo di Design, per frequentare il corso di illustrazione. Ho approfondito, mi sembrava interessante. Ci ho provato. Mi piaceva l’idea di unire la parte manuale, la pittura, a un mestiere consolidato e ben avviato. Mi hanno preso ed eccoci qui».
La sua prima illustrazione a essere pubblicata è uscita sul quotidiano L’Unità. Era il disegno di alcune persone in equilibrio sullo stesso filo, una sopra l’altra. Andrea, ancora uno studente, aveva iniziato il giro degli art director per proporsi. Quello dell’Unità ha apprezzato i suoi disegni, ha pensato che la visione degli equilibristi fosse perfetta per illustrare un articolo e così è iniziata la sua carriera. Era il 2010. L’anno successivo ha fondato, insieme a degli amici, lo Studio Pilar, l’associazione che ha accompagnato e nutrito il suo lavoro in questi anni. Per gli illustratori è frequente e utile unire le forze e aprire uno spazio comune che sia incubatore, fucina di progetti e di idee.
Come hai sviluppato il tuo stile?
«Da studente provi tutto, come quando sei in camerino e indossi vestiti diversi per capire cosa ti sta bene. Quando ho iniziato a lavorare mi sono scontrato con i paletti di questo lavoro. L’illustratore non può fare come gli pare, c’è sempre un committente con delle richieste, un formato da rispettare, una storia da seguire e così via. Col tempo ho provato a semplificare le forme e ho abbandonato i colori cupi, cercando accostamenti più luminosi».
Quali sono state le tue fonti di ispirazione?
«Gli artisti che sono tornati più spesso sono stati Paul Klee e Piero della Francesca. Le opere di Klee sono in apparenza semplici, ma c’è uno studio attentissimo del colore e della geometria. Piero della Francesca è un caposaldo della pittura, per la figurazione, la composizione quasi architettonica, l’uso del colore».
Nel mondo dell’illustrazione chi sono i tuoi riferimenti?
«Mi piace spaziare, parto dall’illustrazione classica italiana, quella degli anni ’20 e ’30, le pubblicità dei cocktail o delle destinazioni balneari. E poi, facendo un salto in avanti, Lorenzo Mattotti, da lui ho provato a prendere la versatilità, la capacità di passare dalla pittura all’illustrazione. E poi c’è Emiliano Ponzi, che ha fatto un percorso simile al mio, partendo dallo IED e riuscendo ad arrivare al mercato internazionale».
Il giornale che ha cambiato la vita e la carriera di Mongia è stato il Boston Globe. L’art director aveva ricevuto il portfolio di Andrea, era rimasto colpito e gli ha chiesto un’illustrazione per un reportage. La commissione era tutt’altro che facile, un articolo sugli abusi sessuali nei college, Andrea era «emozionato ma terrorizzato». Il lavoro è andato benissimo, al punto che, dopo la pubblicazione, è stato contattato da un’agenzia che ha iniziato a rappresentarlo e che gli ha permesso di entrare in contatto e lavorare con le testate più importanti del mondo. Era il 2015 e in quel momento Andrea è diventato illustratore a tempo pieno, a 26 anni.
Come si trova l’equilibrio tra lo stile e le richieste del mercato?
«All’inizio il mercato chiede, tu ti devi adattare e ti sembra che vada bene così. Poi ho capito che in realtà è il contrario. Se tutti si adattassero avremmo un appiattimento totale. Devi trovare il tuo modo di esprimerti. Il nostro lavoro è sempre in balia del tempo e delle mode, l’unico modo per durare è imporre un modo di raccontare le cose, che poi è la cosa che tutti chiamano stile».
Che consigli daresti a un giovane illustratore per riuscirci?
«Provare tutto, sperimentare ogni strada, essere flessibili, costruire diversi portfolio per diversi settori: uno per i giornali, uno per gli editori di libri, uno per le agenzie pubblicitarie. Dopo un po’, scegliere un settore e buttarsi su quello a capofitto. E ricordarsi che il processo artistico non si può accelerare, la maturazione artistica corrisponde a quella personale, non ci sono scorciatoie».
Com’è la tua giornata tipo di lavoro?
«La base del mio lavoro è la settimana più che la giornata ed è sempre organizzata in base alle scadenze. Il brutto e il bello di un lavoro creativo è che non ci sono orari fissi, preferisco lavorare in blocchi di ore. Spesso anche dopo cena, perché molti clienti sono su un altro fuso orario quando mandano mail o richieste di correzioni».
E le idee quando ti vengono?
«Quando non le cerco, mentre faccio altro e la mente è rilassata: in treno per andare a Trastevere, in palestra, quando esco col cane».
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