Praticamente, al punto di partenza. Le negoziazioni sono ancora in alto mare, mentre non mancano colpi di scena e polemiche
Ancora Brexit. Ti stai chiedendo a che punto siamo? In realtà, praticamente al punto di partenza. È una storia senza fine oramai. Le scadenze si susseguono senza sosta e l’uscita formale del Regno Unito dall’UE continua ad essere posticipata. A giugno è scaduto il termine entro il quale Londra avrebbe potuto chiedere un’estensione del periodo di transizione. Poi, il primo ministro Boris Johnson ha battuto i piedi chiedendo un ulteriore rinvio. Risultato? Le negoziazioni sono ancora in alto mare. Passi avanti? Molto pochi, rimangono alcuni punti cruciali su cui le parti sono ancora molto distanti.
Nel frattempo, non mancano i colpi di scena. La scorsa settimana, il premier britannico ha sorpreso tutti mettendo in discussione anche quanto già deciso– e sottoscritto- sull’accordo di divorzio dall’Ue. Una decisione che ha suscitato dure critiche sia all’interno del Regno Unito che, ovviamente, nell’Ue. Ora In pericolo non c’è solo il futuro accordo commerciale, ma le stesse relazioni tra Ue e UK. Scopriamo allora quali punti dell’accordo di recesso sta mettendo in discussione Johnson e cosa sta accadendo a Bruxelles.
La pesca della discordia. Una cosa che proprio non va giù al governo conservatore guidato da Johnson è l’apparente ingiustizia nei rapporti con l’Ue sulla pesca. Il tema non è così rilevante per l’economia britannica, visto che la pesca rappresenta lo 0,12% del Pil inglese, ma è politicamente molto sensibile. Questo perché l’imposizione di limitazioni alla pesca nelle proprie acque territoriali nei confronti di Francia, Belgio, Danimarca e Germania è stato un cavallo di battaglia dei conservatori a favore di Brexit.
Per capire meglio serve qualche dato: l’Unione europea prevede il reciproco ingresso dei pescherecci nelle rispettive acque territoriali. La conseguenza fattuale è che i pescherecci europei pescano nelle acque britanniche otto volte tanto di quanto facciano quelli britannici nelle acque europee. Pura ingiustizia? Sembrerebbe di no, considerando che il Regno Unito non ha le infrastrutture sufficienti per lavorare quella quantità di pescato e che, oltretutto, il 75% del pesce pescato dai pescherecci britannici viene comunque rivenduto agli europei perché semplicemente Londra non consuma tutto quel pesce. Un compromesso sul tema può essere trovato? Sì, proprio per la scarsa importanza del settore per l’economia europea e britannica. Il problema è che la negoziazione sulla pesca appare come una sorta di merce da ‘barattare’ per un accordo migliore sul mercato unico.
No al mercato unico, sì al libero scambio. Ed ecco il nodo principale che non si riesce a sciogliere: il premier Johnson non intende restare nel mercato unico e nemmeno in una unione doganale. Perché? Perché l’adesione sostanzialmente non gli permetterebbe di siglare accordi commerciali autonomi col resto del mondo. Quello che il governo conservatore vuole è invece un ambizioso accordo di libero scambio a tariffa e quota zero. Ma Bruxelles non ci sta: l’Ue intende impedire al Regno Unito di fare concorrenza sleale in futuro, avvalendosi di un quadro regolatorio meno stringente di quello europeo in vari campi: da quello ambientale a quello del lavoro, da quello dei controlli fito-sanitari fino agli aiuti di Stato.
La questione irlandese. Il tema su cui il governo Johnson si appresta a prendere una decisione ‘storica’ è quello dell’l’Irlanda del Nord. Torniamo un attimo indietro. Subito dopo il referendum su Brexit, sia l’Ue che il Regno Unito avevano concordato un punto fondamentale, ossia il rispetto degli ‘accordi sul Venerdì Santo’ che in pratica escludevano la presenza di una dogana tra l’Irlanda del Nord (territorio britannico) e la Repubblica d’Irlanda a sud. Tutto molto bello, il problema è che senza dogana le merci in transito tra i due territori sarebbero potute entrare in Irlanda – e quindi nel mercato unico europeo – senza pagare alcun dazio e senza alcun controllo di tipo regolamentare. Nell’accordo di recesso – quello appena rifiutato da Johnson – il protocollo prevedeva che le merci inglesi in entrata nell’Irlanda del Nord sarebbero state soggette a controlli e adempimenti doganali. In pratica è come se nel Mare d’Irlanda ci fosse una dogana. Un compromesso che Johnson aveva dovuto accettare pur di ritirarsi dall’unione doganale con l’Ue. Questo è proprio quello che ora mette in discussione, presentando una proposta di legge che concederebbe al governo britannico la facoltà di ignorare o disattendere in parte le regole doganali europee.
Trattative bloccate, UE: “pacta sunt servanda”. Il Regno Unito dopo Brexit sembra irriconoscibile. Lo storico sostenitore della “rule of law” sarebbe pronto a infrangere un Trattato internazionale, peraltro firmato solo pochi mesi fa. Un comportamento che alla rigida regia europea a firma tedesca non va molto a genio. La stessa presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si è definita “molto preoccupata”, ricordando che “Pacta sunt servanda”.
Per riassumere: ad oggi, la confusione regna sovrana. Per Londra c’è in gioco non solo il futuro rapporto con Bruxelles, ma anche quello con Galles, Scozia e Irlanda del Nord. Il governo britannico continua a sostenere che l’Ue non può chiedere a Londra più di quanto abbia già fatto. Per i conservatori non c’è spazio per una intromissione da parte della Corte di Giustizia europea sulla regolamentazione commerciale che verrà adottata dal Regno Unito, il quale comunque si impegna a non ridurre gli standard precedenti (su lavoro e ambiente) per ottenere vantaggi competitivi. Una posizione però che non piace per nulla a Bruxelles.
Cosa accadrà nelle prossime settimane? Boris Johnson ha appena presentato una proposta di legge che boccia l’accordo di recesso con l’Ue, annunciando che il Regno Unito è pronto ad andare avanti sulla strada del ‘no deal’ se entro il 15 ottobre non verrà trovato un accordo favorevole sui futuri rapporti bilaterali.
Una strategia negoziale ‘al rialzo’ per ottenere le massime concessioni possibili? Può essere, intanto Johnson rischia un mancato accordo, potenzialmente molto dannoso per l’economia britannica. La possibilità che gli inglesi arrivino a disattendere un trattato internazionale rischia infatti di rendere più intransigenti gli europei in merito agli accordi futuri, con conseguenze che andrebbero ben oltre la sfera prettamente economico-commerciale. Johnson rischia di perdere tutto se pensa che l’Unione possa sacrificare il suo mercato unico sull’altare di Brexit.
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