Col benestare dell’UE, il governo ha programmato uno sforamento per rafforzare il sistema sanitario e aiutare famiglie e imprese. Ma la spesa finale potrebbe essere molto più corposa
Diario di bordo, giorno 17 dalle prime infezioni di COVID-19 emerse in Italia. È il 9 marzo quando, per ridurre il rischio che la diffusione del nuovo coronavirus acceleri al di fuori delle regioni settentrionali, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte estende all’intero territorio nazionale le misure restrittive già in vigore in Lombardia e in 14 province del Nord Italia. L’obiettivo di tali misure è ridurre all’osso i contatti interpersonali, e dunque i rischi di contagio: scuole e università ancora chiuse, fortemente limitati gli spostamenti, altamente raccomandato lo smart working laddove possibile (e dove no, la prosecuzione del lavoro in condizioni di sicurezza).
Appena due giorni dopo, la presidenza del Consiglio annuncia un’ulteriore stretta: la chiusura obbligatoria delle attività commerciali non essenziali nel settore del commercio al dettaglio. Restano aperti supermercati, alimentari e farmacie, oltre a trasporti, servizi di pubblica utilità e servizi bancari, postali e assicurativi. Operative anche le aziende, ma solo se in grado di applicare i protocolli di sicurezza indispensabili per proteggere i lavoratori dal contagio.
Un’Italia sotto chiave, insomma. Pronta per lo shock economico.
La risposta allo stop (e allo shock) economico. Sì, perché la diffusione del coronavirus e le misure restrittive di contrasto inevitabilmente peseranno sull’attività economica. Consapevole di ciò, il governo ha chiesto e ottenuto dal Parlamento italiano l’autorizzazione a raccogliere fino a 25 miliardi di euro di risorse straordinarie per il 2020. Somma, questa, che include i 7,5 miliardi di spesa già annunciata i primi di marzo. E che comporterà un sensibile incremento del deficit 2020. Giocoforza, l’Italia non riuscirà a rispettare gli impegni assunti con l’UE in termini di deficit, ma non è ancora chiaro se sforerà il fatidico tetto del 3% del PIL. E la chiave sta tutta in quel “fino a”. I 25 miliardi di euro, infatti, non verranno spesi tutti e subito. E non è nemmeno detto che vengano spesi tutti.
Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha chiarito che circa 12 miliardi di euro serviranno a garantire “il pieno sostegno al sistema sanitario e alla Protezione civile, al lavoro, alla liquidità di famiglie e imprese, oltre a interventi sulle scadenze fiscali anche in preparazione di meccanismi di parziale ristoro per i territori più colpiti dal virus”. Per le famiglie, previsti congedi parentali e voucher per baby sitter. La restante quota dei fondi autorizzati potrebbe invece non servire nella sua interezza, dal momento che una parte delle future misure extra potrebbe in prospettiva essere cofinanziata da fondi europei.
E Bruxelles cosa ne pensa? Consapevole della gravità della situazione, in merito alla primissima tranche da 7,5 miliardi di euro la Commissione Europea ha acconsentito alla temporanea deviazione dell’Italia dalle severe regole fiscali del Patto di Stabilità e Crescita. Si attendono, però, ulteriori delucidazioni sul tipo e il grado di “flessibilità” che i leader europei sono disposti a tollerare. Va comunque detto che la stessa UE si prepara ad agire: il primo passo è il Corona Response Fund da 25 miliardi di euro annunciato dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen.
Ma non c’è solo l’UE. L’emergenza coronavirus e la spesa programmata per affrontarla hanno riportato in auge le preoccupazioni sulla sostenibilità del debito italiano, già sopra il 137% del PIL. Secondo le stime di Danske Bank, con una recessione di “appena” il -1% nel 2020 e nessun incremento del costo del nostro debito, il rapporto debito/PIL supererebbe probabilmente la soglia del 140% entro fine anno; ma con uno scenario di recessione più grave, combinato a un più ampio pacchetto di sostegno all’economia, potrebbe avvicinarsi al 145% del PIL. Prospettive, queste, che si sono già tradotte in un significativo allargamento dello spread tra Italia e Paesi europei “forti” (leggasi Germania).
Un appello alla clemenza delle agenzie. Sempre secondo Danske Bank, molto dipende dalle agenzie di rating, che al momento ci giudicano come segue.
Per poter continuare a beneficiare delle reti di sicurezza predisposte dalla BCE e al contempo restare nei principali indici obbligazionari, bisogna che l’Italia conservi almeno un rating Investment Grade in casa Moody’s, S&P o Fitch. Sarà decisivo il modo in cui queste agenzie valuteranno l’aumento del deficit: se metteranno l’Italia sotto osservazione per un’eventuale bocciatura o addirittura la declasseranno, gli investitori stranieri potrebbero convincersi che è il caso di (s)vendere e condurci dritti dentro un circolo vizioso nel quale i rendimenti volano e gli spread pure.
Sarebbe opportuno evitare una replica del sell-off del 2011-2012, quando gli investitori stranieri – che oggi hanno in mano all’incirca il 32% del debito sovrano italiano – ridussero di botto la loro quota dal 40% al 30%. E ognuno, qui, può fare la sua parte: per esempio, restando in casa per rallentare e finalmente fermare il contagio nel nostro Paese.
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