La crisi climatica avrà serie conseguenze economiche, sociali e geopolitiche. Ma questo quadro apre anche interessanti opportunità di cambiamento. E d’investimento all’insegna della sostenibilità
Ma vi ricordate quando, dieci anni fa, ci preoccupavamo tanto delle crisi economiche e finanziarie? Che tempi. Quasi spensierati, a giudicare da ciò che più ci angustia oggi. Secondo il rapporto “Verso la decarbonizzazione dell’economia”, a cura della Fondazione per lo sviluppo sostenibile e di ING, al top della classifica svettano i rischi di tipo ambientale, in particolare quelli legati ai cambiamenti climatici: fenomeni meteorologici estremi, disastri naturali, fallimento delle politiche climatiche.
Più e meglio rispetto a qualche anno fa, oggi sappiamo che questi rischi alimentano altri rischi di carattere economico, sociale e geopolitico dagli sviluppi spesso imprevedibili: danni alle produzioni agricole e alle forniture energetiche, erosione delle risorse per la sussistenza, impatto sulla salute e, in conseguenza di tutto ciò, aumento dei migranti climatici e dei rifugiati ambientali. Ma questo quadro apre anche possibilità d’investimento all’insegna della sostenibilità.
C’era una volta Parigi. La consapevolezza di quanto serio sia il quadro c’è, anche a livello politico. Quel che manca è un’azione davvero convinta, oltre alla convinta collaborazione di Paesi determinanti come Stati Uniti e Cina. Nel 2015 Parigi ha ospitato la firma dell’accordo per la lotta ai cambiamenti climatici: 194 Paesi si sono impegnati a contenere l’aumento della temperatura media globale sotto i 2 gradi Celsius rispetto al periodo pre-industriale, con ogni sforzo possibile per restare entro la soglia dell’1,5 gradi Celsius in più. Un obiettivo per raggiungere il quale bisognerebbe conseguire la cosiddetta carbon neutrality intorno al 2050: ovvero, azzerare le emissioni nette all’incirca entro la metà di questo secolo.
Peccato che negli ultimi anni le emissioni nette siano invece tornate a salire. E non va affatto bene: secondo gli scienziati, con gli attuali trend di crescita entro la fine del secolo la temperatura media globale potrebbe aumentare di oltre 4 gradi Celsius rispetto al periodo pre-industriale, compromettendo seriamente i sistemi naturali e la stessa sopravvivenza di noi Sapiens. Alla radice del problema ci sono proprio loro: le fonti fossili.
Fonti fossili al primo posto. Abbiamo tutti, in sostanza, tre fabbisogni: elettricità, riscaldamento, trasporti. Come li soddisfiamo? Siamo ancora lì: il mix energetico mondiale lo dominano ancora i combustibili fossili, ovvero petrolio, carbone e gas. Basti pensare che delle 330 milioni di tonnellate “oil equivalent” di nuovo fabbisogno del 2018, circa il 70% è stato soddisfatto da combustibili fossili, in primis il gas naturale.
Un dominio che si estende agli investimenti: ancora oggi sulle fonti fossili confluisce quasi il triplo degli investimenti rispetto alle rinnovabili. Un peso in questo lo hanno le scelte dei due colossi energivori già menzionati, Cina e Stati Uniti, che fanno ancora un massiccio ricorso al carbone e alle altre fonti fossili. E noi? Pure in Italia le fossili costituiscono ancora circa l’80% del fabbisogno energetico: tuttavia, il nostro Paese presenta storicamente un mix energetico più pulito della media globale, grazie al gas che ha la meglio sul carbone e alla disponibilità di rinnovabili.
Paghiamo già un prezzo pesante. I cambiamenti climatici non agiscono – e non agiranno – allo stesso modo dappertutto: Italia e sud Europa risultano già oggi tra le aree più esposte del mondo occidentale, per incremento delle temperature e conseguenze in termini di siccità, ondate di calore, innalzamento dei mari, scioglimento dei ghiacciai e stravolgimento dei pattern di pioggia. Per dirne una: rispetto alla media del trentennio 1961-1990, l’Italia ha registrato un aumento di 1,7 gradi Celsius, a fronte della media mondiale di +0,98.
E il conto è salato. Tra il 1980 e il 2017 l’Agenzia Europea dell’Ambiente stima perdite economiche cumulate causate da eventi connessi al clima per 426 miliardi di euro: l’Italia sarebbe tra i Paesi più colpiti, con oltre 20 mila decessi e circa 65 miliardi di euro di danni, dato secondo solo a quello della Germania. Uno studio realizzato da Italy for Climate con lo European Institute on Economics and the Environment avverte che, se l’aumento delle temperature prosegue di questo passo, nella seconda metà del secolo il PIL italiano perderebbe 130 miliardi di euro all’anno. E il gap Nord-Sud si allargherebbe.
Cosa possiamo fare noi italiani? Due cose, essenzialmente. Nessuna delle due facile, ma entrambe fondamentali.
- puntare tutto sulla carbon neutrality con una riduzione delle emissioni nette decisamente più convinta;
- cogliere l’opportunità di rilancio dell’economia e dell’occupazione offerte da un Green New Deal per l’Italia che metta in cima alle priorità fonti rinnovabili, efficienza energetica degli edifici, economia circolare, rigenerazione urbana in chiave green city e mobilità sostenibile
Niente male, vero? Un altro passo decisamente importante potrebbe essere ridurre l’ampio sostegno economico che ancora oggi i governi di tutto il mondo riservano a petrolio, carbone e gas naturale. Dopo un breve calo, infatti, dal 2016 al 2018 i sussidi ai combustibili fossili, sia diretti che indiretti tramite il settore della produzione elettrica (di cui il carbone è la prima fonte), sono cresciuti di più del 50%. Un’infatuazione cui l’Italia non è immune.
Il ruolo degli investimenti. C’è una terza cosa che noi italiani possiamo fare: scoprire l’importanza della sostenibilità negli investimenti. Secondo la Climate Bonds Initiative, organizzazione internazionale che lavora per mobilitare il mercato obbligazionario verso progetti e soluzioni di contrasto ai cambiamenti climatici, nel 2019 le emissioni di Green bond e prestiti green hanno raggiunto i 254,9 miliardi di dollari USA: un nuovo record globale e un miglioramento del +49% rispetto ai 171,1 miliardi del 2018. Per il 2020 si prevede un’emissione globale di 350-400 miliardi, cosa che rende più realistico il traguardo del 1.000 miliardi annui entro il 2021/2022.
Ma un piccolo risparmiatore cosa può fare? Sempre nell’ambito di un portafoglio ben diversificato, può puntare su un prodotto – fondo comune o ETF – che metta al centro della selezione dei titoli precisi criteri di responsabilità ambientale, sociale e di governance (ESG). Un mercato, anche questo, sempre più interessante, ampio e variegato.
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