Si apre la fase di transizione: undici mesi in cui andranno completamente ridefinite le relazioni tra i due Paesi. Che hanno posizioni distanti su vari fronti
Dopo quarantasette anni di storia comune, il Regno Unito è il primo Paese a lasciare l’Unione Europea, cui aveva aderito nel 1973. La separazione formale è scattata il 31 gennaio 2020, dopo il voto dell’Europarlamento che ha sancito l’addio. Ma a tre anni e mezzo dal referendum – tenutosi il 23 giugno 2016 – è ancora prematuro parlare di divorzio: i dettagli delle future relazioni sono tutti da scrivere. Per questo i prossimi undici mesi saranno cruciali.
Dal primo febbraio si è aperta infatti una nuova fase di Brexit, un periodo di transizione dedicato a intensi negoziati, volti a regolare i rapporti tra Regno Unito e UE in tutte le loro forme. Cominciamo bene: Bruxelles sarebbe per un’estensione di questo periodo, ma Londra ha già fatto sapere – con una legge ad hoc – che non intende estendere la transizione oltre la data del 31 dicembre 2020. Si profila quindi una corsa contro il tempo.
Anche perché, per il momento, le posizioni delle due parti sembrano difficilmente conciliabili su vari aspetti. Ma procediamo con ordine.
Cosa è cambiato il 31 gennaio? Molto poco. Il Brexit Day ha avuto un valore soprattutto simbolico: la bandiera britannica, la Union Jack, è stata rimossa dai palazzi di Bruxelles, così come i vessilli europei sono stati eliminati dai palazzi del potere britannico. E il Regno Unito non avrà più diritto di voto nelle istituzioni europee.
Ma, in concreto, nei prossimi undici mesi non cambierà (ancora) nulla: i rapporti commerciali rimarranno gli stessi, con il Regno Unito che resterà nel mercato unico e nell’unione doganale e dovrà rispettare tutte le norme UE. Soprattutto, il Regno Unito continuerà a contribuire al budget comunitario per tutta la durata della transizione.
Il nodo della circolazione delle persone. Anche la normativa e le procedure UE in materia di libera circolazione delle persone resteranno immutate: ai turisti europei basterà la carta di identità per entrare nel Regno Unito e tutti gli espatriati già registrati come residenti o che si registreranno durante la fase di transizione e fino al 30 giugno 2021 manterranno – da una parte e dall’altra – i diritti odierni nei rispettivi Paesi di accoglienza. Le cose cambieranno nel 2021, quando si tornerà a un meccanismo di visti simile a quello degli Stati Uniti. Per i viaggi, gli europei potranno entrare nel Regno Unito solo col passaporto, così come i britannici nella UE avranno bisogno del passaporto e la loro condizione non sarà più quella di cittadini comunitari. Un punto che ha suscitato molte critiche a questo proposito è il rifiuto del governo UK di includere nell’accordo di separazione un impegno a proseguire la partecipazione nel programma Erasmus, anche se successivamente Londra ha assicurato che intende continuare a essere inclusa.
I tempi dei prossimi negoziati. I punti da decidere sono molti e il tempo è poco: in undici mesi bisognerà negoziare una mole di sotto-accordi che regoleranno i futuri rapporti, a partire da quelli commerciali. Sì, perché dopo il 31 dicembre 2020 il Regno Unito rinuncerà al mercato unico e all’unione doganale.
Quali rapporti commerciali emergeranno? Il primo ministro britannico Boris Johnson ha dichiarato di volere un accordo come quello che l’UE ha stipulato con il Canada, escludendo una partnership fondata su una stretta integrazione normativa perché vuole garantire al Regno Unito la libertà di negoziare accordi di libero scambio con altri Paesi, come USA, Australia e Nuova Zelanda. “Riprenderemo il controllo delle nostre leggi”, ha dichiarato Johnson, “e non saremo più soggetti all’ordine legale dell’UE”.
Bruxelles dal canto suo si è dichiarata disponibile a un accordo ad ampio spettro, che copra un ambito il più largo possibile di settori, ma a patto che siano garantite condizioni di parità: in altre parole, Londra non dovrà avere un vantaggio competitivo sull’Europa. Anche perché l’UE vuole assolutamente evitare un precedente che possa incoraggiare altri Paesi all’uscita dal blocco, consentendo a Londra di sottrarsi alle regole comunitarie e al contempo continuare a godere dei benefici economici di una stretta partnership commerciale.
Diritto di pesca e altre questioni. Ma le questioni da affrontare non si esauriscono ai rapporti commerciali: andranno regolati l’applicazione delle leggi, la condivisione di dati e informazioni, la sicurezza, il traffico aereo, la fornitura di gas ed elettricità, i brevetti e le regole per i farmaci. E, soprattutto, il diritto di pesca degli europei in acque territoriali britanniche e viceversa: un problema particolarmente spinoso perché da un lato alcuni Paesi UE – come la Danimarca, la Francia, i Paesi Bassi e la Spagna – chiedono di mantenere diritti di pesca nei mari del Regno Unito, mentre dall’altro Boris Johnson ha promesso ai pescatori piena sovranità sulle acque territoriali.
Cosa succederà ai servizi finanziari? Un altro punto controverso riguarda i servizi finanziari. Una volta fuori dal mercato unico, il Regno Unito non beneficerà più del cosiddetto “passaporto finanziario” che ha consentito finora alle sue compagnie finanziarie di vendere liberamente i propri servizi nell’area UE. Bruxelles si è impegnata a valutare se riconoscere l’equivalenza delle norme di regolazione del sistema finanziario con le proprie. Londra da parte sua è disposta a una stretta collaborazione in materia di regolamentazione e vigilanza, ma ritiene che le decisioni in materia di equivalenza dei servizi finanziari dovranno essere unilaterali.
Una strada lunga. Come sempre avviene con negoziati così complessi, le due parti dovranno fare concessioni incrociate sui vari capitoli negoziali: una serie complessa di do ut des che richiederà molto tempo per essere completata.
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